Ai suoi figli caduti in guerra

Ai suoi figli caduti in guerra

Curinga consacra.

Anche Curinga. come ogni paese d’Italia, omaggia il Milite Ignoto col Monumento dedicato ai suoi cittadini che, in nome della Patria, hanno sacrificato la loro vita.

MCMXL — MCMXLV

S

La Croce sul Monte Contessa

La Croce sul Monte Contessa

Riviviamo, attraverso un testo trascritto da Don Francesco Arciprete Panzarella, nato a Curinga ma, Parroco a Jacurso, le paure vissute dal popolo nel passaggio dal secolo 1800 a quello del 1900, durante il quale si credeva che potesse arrivare la fine del mondo.
Anche noi abbiamo vissuto questo tipo di trauma nel passaggio tra il 1900 e il 2000, non per paura che potesse arrivare la fine del mondo ma, col problema” informatico” del Millennium bug, conosciuto anche come Y2K bug.
La Croce sul Monte Contessa  Era “voce di popolo “che all’inizio di un nuovo secolo sul monte più alto venisse impiantata una grande croce. Quell’anno del nuovo secolo 1900, venne organizzata dalle parrocchie di Cortale, Jacurso, Maida, San Pietro a Maida e Curinga una cerimonia religiosa da tenersi a Maida e il giorno successivo recarsi sul Monte Contessa, territorio di Jacurso, per piantare una grande croce.
Doveva essere il saluto al nuovo secolo nel nome del Signore.
La cerimonia si tenne nel Settembre del 1901. Con ritardo notevole rispetto all’inizio del nuovo anno.
Non fu tanto per paura del cattivo tempo, durante il periodo invernale, piuttosto, come succede puntualmente per ogni particolare avvenimento, si pensava e si temeva che sarebbe arrivata la fine del mondo in coincidenza con la fine del secolo 1800.
Fin qui le dicerie popolane tramandate, mentre la cronaca di quell’evento ci narra che intervennero più di seimila persone, appartenenti ad ogni ceto sociale e che funzioni solenni con dei bei discorsi si tennero a Maida nella Chiesa di San Domenico per principiare la festa e a Jacurso nella Chiesa di San Sebastiano martire per la chiusa della festa.
Il testo integrale viene riportato tradotto dall’originale dal quale si riporta una copia a memoria del l’Arc. Don Francesco A.  Panzarella sacerdote a Jacurso.

Il testo trascritto come dall’originale da
Don Francesco Arciprete Panzarella.

Il giorno 29 settembre 1901, sul Monte Contessa territorio di Jacurso venne inaugurata una croce commemorativa per il XX secolo.
Promotori furono il Comitato parrocchiale di Maida e i cleri dei comuni di Maida, Jacurso, San Pietro a Maida, Curinga e Cortale. Il 28 di detto mese Monsignor Domenico M ° Valensise Vescovo di Nicastro accompagnato dal comm. Pisani e dal Provicario di Nicastro Can.º Laureana venne in Maida e diede principio alla festa dell’inaugurazione della Croce con una riunione interparrocchiale nella chiesa di San Domenico nella quale vi furono dei bellissimi discorsi.
Il 29 sul Monte contessa intervennero più di seimila persone di tutti i paesi circonvicini, non intervenne però Monsignor Vescovo per motivi di salute.
Ogni Parrocchia venne ben rappresentata ed anco Jacurso, oltre il clero, a capo l’Arciprete sottoscritto, il Comitato Parrocchiale, la Congregazione di Maria SS ° della Salvazione, il terz’ordine di San Francesco ed i soci dell’apostolato della Preghiera.
Vi concorse ogni ceto di persona dalla signorina alla donnicciola dal gentiluomo al più vile della pleba. In detto giorno si benedisse la Croce ai piè della quale si celebrò la messa dal can° Laureana di Nicastro rappresentante il vescovo. La sera venne fatta la chiusa della festa in questa chiesa parrocchiale dietro due discorsi di circostanza tenuti l’uno da un tal Caruso studente universitario di Maida e l’altro dal prelodato comm. Piisani

Francesco Arciprete Panzarella

I TERREMOTI IN CALABRIA FINO AL 1639

I TERREMOTI IN CALABRIA FINO AL 1639


I principali rilievi della Calabria ( Catena del Pollino, altipiani della Sila, cima di Botte Donato, monte di Tiriolo, Reventino, le Serre e Aspromonte ) negli ultimi 10000 anni si sono sollevati di oltre 1000 metri col conseguente sprofondamento delle fosse marine.

L’Appennino calabrese è sepolto da una corazza cristallina estranea ( disfacimento di antichi sistemi montuosi, probabilmente alpini). La parte estranea superiore, sollevandosi, si è spezzata in più punti critici dando origine alle faglie.

Periodicamente la pressione che solleva la parte superiore del terreno diminuisce bruscamente dando origine così ai terremoti.

Un’altra causa di fenomeni sismici è la strozzatura esistente sull’asse S. Eufemia-Catanzaro.
Molta importanza hanno anche le attività dei vari vulcani, visibili e non, a causa dell’emissione di lave vischiose che raffreddandosi rapidamente in cima provocano le continue esplosioni per espellere il ” coperchio ” già freddo.

ELENCO (31) DEI TERREMOTI IN CALABRIA DAL 316 D. C. AL 1638
– 316 terremoto e distruzione della città di Nicastro .
– 365-369 vasto terremoto in Calabria, Sicilia e basso Tirreno.
– 10/12/968 forte terremoto a Rossano.
– 24/5/1184 terremoto nella valle del Crati.
– Marzo 1230 forte terremoto a Reggio e nella Calabria sud.
– 1310 molte scosse nella Calabria meridionale.
– 25/2/1509 distruzione di molte case a Reggio.
– Gennaio 1544 molte scosse in Calabria.
– 11/11/1561 terremoto rovinoso a Reggio.
– 8-13-16-19/11/1596 ripetute scosse in tutta la Calabria.
– 25/8/1599 ripetute scosse con danni i Calabria.
– 20/7/1609 rovinoso terremoto a Nicastro con danni alla Cattedrale ed al castello.
– 1614 forti terremoti in Calabria
– 1619 ripetuti terremoti in Calabria
– 3/2/1624 terremoti in Calabria meridionale.
– Marzo-Aprile/1626 terremoto a Girifalco.
– 8/6/1634 terremoto a Misuraca, Policastro, Belcastro e Simeri con 10 morti, 45 chiese e 1153 case distrutte
– 27/3/1638 terremoto disastroso a Nicastro e valle Savuto.
– 28/3/1638 replica distruttiva nelle zone di Filogaso, Francavilla Angitola, Castelmonardo, Montesoro, Girifalco ecc.
– 8/6/1638 nuova replica nelle zone di Rocca di Neto, Mesoraca, Petilia Policastro, Longobuco ecc.
(citazione F.A. Cefalì Da Monsauro a Montesoro)
TERREMOTO DEL 1638
Il terremoto del 1638, di forte intensità, forse di origine vulcanica per l’eruzione dello Stromboli superò i diecimila morti.
Dalla relazione dell’accademico Urso si possono dedurre tutti i morti e i danni nelle principali città della Calabria
NICASTRO
uomini morti 538; donne 647; monaci 15; case tutte diroccate; caduto un bellissimo convento dei Domenicani.
SAMBIASE
uomini morti 271; donne 487; bambini 9; case tutte diroccate.
S.EUFEMIA
uomini morti 51; donne 89; sacerdoti 2; monaco 1; distrutta una bellissima chiesa.
FEROLETO
uomini morti 72; donne 98; sacerdoti 1; case tutte distrutte.
GIRIFALCO
uomini morti 27, donne 22, bambini 9, case quasi tutte diroccate.
CASTELMONARDO
uomini morti 12; donne 22; bambini 26; sacerdoti 1; monache bizoche 2; case quasi tutte distrutte; i cittadini rimasti esprimono il desiderio di cambiare le abitazioni in altro luogo
CATANZARO
donne morte 3; sacerdote 1; chiese e monasteri con danni 18; case inabitabili 315; danni al palazzo della Regia, alla chiesa maggiore e alla casa del vescovo.
MAIDA
uomini morti 5; donne 3; bambini
3; case diroccate 92; case inabitabili 66; castello dei principi danneggiato.
CURINGA
bambini morti 1; molte case cascate e molte danneggiate.
S.PIETRO
non vi sono morti ma case diroccate 70.
FRANCAVILLA
uomini morti 16; donne 3; bambino 1; case diroccate 71; case distrutte 64; castello rovinato; le case interessate erano tutte di pietra anche se il paese era conosciuto come terra di “Presta” per il tipo di muratura.
MONTESORO
niente morti; case diroccate 71, chiese 2; molto danno.
POLIA
non vi sono morti; case diroccate 30; case inabitabili 84
MONTEROSSO
nessun morto; case cascate 33, chiese 1; ospedale 1

La seconda battaglia delle Grazie (1860)

La seconda battaglia delle Grazie (1860)

L’iniziativa per l’unificazione dell’Italia, nel 1860, passa al popolo. Le diplomazie e i governi, infatti, si muovevano con cautela e moderazione. (In Italia erasi costituito il partito moderato con funzioni di freno ai democratici). L’incoraggiamento e l’avvio venne dalla Sicilia dove la rivolta antiborbonica aveva preso forma endemica. Crispi preme su Garibaldi. Si apre il capitolo della Spedizione dei Mille. Novantaquattro mila lire in tasca e armi da museo. Cavour confessa di trovarsi in « un crudele imbarazzo » : non benedice, e sconfessa soltanto a mezzavoce… se son rose, fioriranno.
Le tappe dei Mille: Quarto (oggi Quarto dei Mille), Marsala, Calatafimi e il 30 maggio a Palermo dopo tre giorni di combattimento, Milazzo, Reggio Calabria (19 agosto) con le file ingrossate dalle squadre dei volontari siciliani. Il generale Stocco, rientrato da Malta, s’era messo anch’egli a capo degli insorti Calabresi alle dipendenze del Dittatore. Il 27 e 28 agosto Garibaldi è a Curinga. « Il
popolo mandava grida di gioia. Le donne, portanti rami di palma e di ulivo, gli mossero incontro, come a novello Cristo, il redentore ». « Non gridate viva Garibaldi, ma viva l’Italia! », rispondeva Garibaldi (cfr. Dinami, Garibaldi). Cinquantacinque curinghesi validi alle armi lo seguirono e il 27 agosto combatterono, con le altre Camicie Rosse, contro i Borboni ch’erano dai 12 ai 14 mila uomini con 12 cannoni. Tra i 55 vi era il sac. Vincenzo Michienzi « che ha servito fedelmente da Cappellano nella divisione Stocco contro l’abborrito governo borbonico » (Attestato del gen. Stocco, 29.11.1860). Attestati analoghi furono rilasciati al pittore Andrea Cefaly sia per aver partecipato all’insurrezione del 1848 che alla battaglia del 27 agosto 1860 alle Grazie assieme al fratello Raimondo e a 40 Cortalesi. Il Maggiore Francesco Angherà dei fratelli Cefaly dichiarò: «… mi diedero ospitalità, ma anche cooperarono energicamente e con disinteresse per la formazione del campo insurrezionale sulle alture di Maida ».
Anche stavolta la topografica della zona si prestò a dare aiuto ai Garibaldini, come nel 48 ai Nazionali, ma con esito più favorevole poiché la resistenza opposta impedì al generale Chio, comandante delle truppe borboniche, di unirsi alle altre truppe.
Molti dei più noti quarantottisti si rifecero vivi e con aumentato spirito combattentistico: i Cefaly, Achill
 D’Amico, Tommaso Carchidi che cadde nel combattimento, D’Ippolito, Aquilino Serra, Achille Fazzari e altri.

«Ai valorosi

S A LVATORE GIAMPA’
LUIGI TODERO EUGENIO GIGLIERANDO
TOMMASO CARCHIDI
GIUSEPPE TRANFO
che in questo luogo caddero per la Patria il 2,7-8-1860 mentre cercavano sbarrare la vìa ai soldati dell’ultimo borbone inseguiti dall’invitto Duce dei Mille ».La Provincia riconoscente nel 1873 eresse un ricordo marmoreo, oggi, perché scaduti con gli altri valori anche gli ideali di Patria, affatto valorizzato e mostrato alla gioventù e adolescenza. Neanche i cultori e insegnanti di storia patria sanno mostrarlo!
La famiglia Bevilacqua a perenne ricordo della sosta nella loro casa, sita nella parte alta del paese ed ora in stato di semiabbandono, nel 1960, ricorrendo il centenario, pose una lapide marmorea scoperta dal nipote del Dittatore, Ezio Garibaldi:

«IN QUESTA GASA
IL GENERALE GIUSEPPE GARIBALDI
ACCLAMATO DAL POPOLO DI CURINGA
SOSTO’
LA NOTTE DAL 28 AL 29 AGOSTO 1860
E ACCEDERÒ LA LEGGENDARIA EPOPEA
IMPARTENDO PRECISI ORDINI A FRANCESCO STOCCO PER L’INSEGUIMENTO DELLE TRUPPE BORBONICHE CONCLUSOSI IL 30 A SOVERIA MANNELLI ».
Garibaldi arrivò che non era atteso. Presenti in casa oltre ai Bevilacqua, anche Cefaly al quale « sembrava un sogno vedere seduto nel salone » il Generale. Presente, ma camuffata nei vestiti di un ufficiale garibaldino, la contessa Martini della Torre. Garibaldi la conosceva bene. Quella sera il Generale ricevette Francesco Stocco per dargli le istruzioni per tallonare decisamente la ritirata dei Borbonici che, come si sa, vennero disarmati il 30 di agosto in Soveria Mannelli.
Una conferma del fascino subito dai Curinghesi di Giuseppe Garibaldi la troviamo nella toponomastica: al suo nome è dedicata la principale arteria del paese. Una ultima mobilitazione
garibaldina vi fu in Curinga, appena qualche giorno dopo la morte del Generale: il popolo si raduna in piazza attorno ad un catafalco. Vi sono la banda, i reduci garibaldini, le scuole, i carabinieri, il Consiglio Comunale. Sul catafalco, in mezzo a un trofeo di armi e di bandiere l’effige del Defunto. Due ex ufficiali garibaldini, in camicia rossa, portano la bandiera e la corona dì fiori. Il maggiore Giacinto Bevilacqua, che aveva combattuto al Volturno, depose la corona. Il dott. Dinami pronunciò il discorso, intessuto di veleno anticlericale.

Insurrezione del 1870

Gli appuntamenti alle Grazie del 1848 e 1860 possiamo considerarli non previsti: Curinga si trovò occasionalmente nell’occhio del ciclone e seppe dare il suo contributo. “Nei moti insurrezionali della Calabria del maggio 1870 « per combattere la miseria e l’oppressione di un Re traditore » (cfr. Proclama ai Cittadini soldati, datato Filadelfia 7 maggio ’70), Curinga, invece, fece la prima mossa, e l’insurrezione turbò e sconvolse i piani operativi del Comando Generale della Divisione Militare di Catanzaro predisposti fin dall’aprile dopo i fatti di Pavia e Piacenza e le voci provenienti dalla Provincia e raccolte nella stessa Catanzaro.
Si temevano soprattutto tumulti in città e tra i 700 detenuti. La Prefettura chiedeva una forza oscillante tra i 200-300 uomini poiché due battaglioni dovevano restare sul piede di guerra per essere trasferiti in Sicilia nell’eventualità che anche colà scoppiassero disordini. Gli informatori segnalavano probabili disordini per l’otto maggio. Il 6 maggio, invece, un telegramma del Sottoprefetto di Nicastro al Prefetto di Catanzaro segnalava « la comparsa di una numerosa banda di individui, taluni in abito rosso, che dalle vicinanze di Curinga, con grida rivoluzionarie, avanzava verso Maida». La notizia era allarmante per i possibili sviluppi della situazione già incandescente. « Non appena avevo notizia del fatto di CURINGA», — relaziona il Maggior Generale Comandante la Divisione Sacchi — affida al maggiore Craighero il comando in campo delle truppe per sedare la rivolta. Sera del 6 maggio si muovono per prima la la e 5a compagnia del 69 Regg. Fanteria, per le ore 18 sono in marcia verso Maida un drappello di Reali Carabinieri di Nicastro e Maida al comando di Graziani, e un drappello di 10 uomini del 70° Regg. Fanteria. Per le 22 sono già in assetto di guerra la 4a e 2a compagnia del 69° Regg. Fanteria dirottate da Borgia.
A Maida si contrappone Filadelfia dove c’è il concentramento degli insorti. Il comando generale è nelle mani di R. Piccoli dei Mille che, da Filadelfia, 8 maggio, nomina Capo Supremo di Stato Maggiore Ricciotti Garibaldi. Non comanda soldati propriamente detti: è una massa d’insorti, circa 500 uomini, come può rilevarsi dagli atti del relativo processo presso gli archivi di Catanzaro. Il grosso degli insorti, fin dalla mattina del 6 maggio, s’erano ritrovati a Curinga; cento provenivano da Cortale, i restanti erano affluiti da parecchi dei Comuni del distretto di Nicastro. Potenzialmente erano molto di più. Sono rientrati tutti a casa e non si esposero perché la sommossa si risolse in una disfatta.

ALCUNI NOMINATIVI dei CINQUECENTO imputati per i moti del 1870:

da CURINGA:

Perugini Domenico di Basilio
Perugini Francescantonio dì Basilio
Senese Domenico di Agostino
Servello Vincenzo detto Scannarra
Viannese (?) Francesco di Domenico
Cefaly Giuseppe fu Giuseppe
Cefaly Antonio fu Giuseppe
Cefaly Gregorio fu Giuseppe
Cefaly Giovambattista fu Giuseppe
Ceneviva Domenico
Cortese Pietro
Ciliberto Elia
Denisi Antonio
Furnaro Pietrantonio di Antonio
Foderare Domenico fu Vincenzo Fioti Andrea
Fioti Pietro
Gallo Marcello Je
me Pietro Luppino Giuseppe
Michienzi Bruno
Mosca Deodato Andrea
Mazzitelli figlio di Concetta soprannominata la Morta
Monteleone Giuseppantonio
Pallaria Antonio
Piraino Pietro di Pietro
Serrao Vincenzo fu Bruno Terranova il cafettiere Veneziano Vincenzo

Con gli insorti vi erano anche due sacerdoti: l’arciprete di Francavilla Angitola e il Curinghese Perugino Pietrogiovanni che in quegli anni, in Curinga, era economo dell’arciprete Domenico Gullo, incarico ricoperto fino al dicembre 1889. I duecento di Curinga, fin dal mattino del 6 maggio, dun-que, si dirigevano verso Maida: in testa la bandiera della rivolta, qualche scoppiettata a salve, molti schiamazzi e urla seguendo le piste della montagna. I cento di Cortale, anch’essi via montagna, con l’ordine che in simili occasioni caratterizza le folle tumultuanti, puntavano decisamente su Filadelfia. I Curinghesi decisero anch’essi a mutare destinazione e di diri-gersi al concentramento di Filadelfia. La notizia dell’insurrezione si divulgò in un baleno: contingenti di insorti, armatisi alla men peggio, marciarono verso Filadelfia. Quanti erano? Meno di quanto le voci allarmistiche o gonfiate a proposito fecero credere al Comandante della Colonna Mobile per la repressione dei moti rivoluzionari. La truppa dopo aver pernottato in Maida, alle 4 del mattino del 7 maggio, è già in movimento. Precedeva la colonna la prima compagnia, un drappello del 70° fanteria e dei carabinieri le proteggevano le spalle: appena 122 uomini di gran lunga meglio organizzati degli insorti. Parte degli insorti avevano occupato la parte più elevata del paese, altri s’erano asserragliati nelle case. Snidati e messi in fuga cercavano scampo, per più vie, verso Curinga. La 4a compagnia accertasi della manovra risospinse i fuggitivi entro Filadelfia. Chi lo potette si dileguò, correndo senza meta, nelle campagne, nelle macchie e boschi. L’insurrezione dei Curinghesi era finita verso mezzogiorno del 9 maggio con la cattura degli ultimi sbandati. Le scintille dell’insurrezione avevano, però, trovato esca tra gli operai di Copanello intenti a scavare il traforo della ferrovia, in Serra S. Bruno, Mongiana, Davoli, ecc. Il Comando della Colonna Mobile non aveva respiro. Nel fatto di Filadelfia i morti furono due, i feriti, tra la popolazione, undici, comprese 6 donne e una bimbetta di 5 anni. Un morto nell’esercito. Incolumi tutti i Curinghesi.
Furono addotti da parte dei Capi degli insorti motivazioni di libertà, ma, in realtà le popolazioni si muovevano per scrollarsi i gravami derivanti dalla miseria e dai sorprusi dei ricchi terrieri. Nella speranza che i governi eliminassero le cause reali, i capi militari chiedevano al Ministero della Guerra armi ed armati! (Cfr. Relazione Sacchi, 25.5.1870).

Dal 1806 alla battaglia delle Grazie (1848)

Dal 1806 alla battaglia delle Grazie (1848)

Fuggiti il Re e la Corte in Sicilia, i Francesi (1805) non tardarono a scendere nell’Italia Meridionale. Nel 1806 già si erano insediati pacificamente nella Calabria. Nel luglio di quell’anno, cambiamento improvviso di scena: un’armata Inglese getta all’improvviso le ancore nel nostro mare tra le foci del fiume Amato e dell’Angitola. Maida divenne il Quartiere Generale dei Francesi. Il generale Regnier aveva la sicurezza di sconfiggere gli Inglesi, ed invece fu battuto. Gli storici dicono che le popolazioni affacciatesi sulla Pianavidero la battaglia e ne seguirono le sorti osservando dai rispettivi paesi. Non abbiamo notizia documentata di un diverso comportamento dei Curinghesi, tanto più che lo scontro avvenne nella Marina di Maida.Tutti gli altri tentativi insurrezionali fino al 1848, lasciarono Curinga molto calma nel senso che non prese le armi. Gli animi, tuttavia, avevano già scelto la libertà e la democrazia e plaudivano alle Costituzioni elargite e ai regnanti sinceramente disposti a darle. Plaudì a Ferdinando secondo. Insorse, con altre popolazioni, contro Ferdinando 2° fedifrago.Re Ferdinando non stette con le mani in mano. Sul trono voleva restarci. Per togliergli le castagne dal fuoco diede incarico al generale Nunziante e al generale Busacca. Il primo sbarcò a Pizzo con 2.000 soldati borbonici. Il secondo a Sapri.
A Nicastro, Francesco Stocco, comandante della Guardia Nazionale di tutto il distretto, quindi anche di Curinga, saputo dello sbarco a Pizzo, servendosi dei capitani dei vari municipi, mobilitò in un giorno circa quattro mila uomini, pieni di entusiasmo ma disorganizzati. Il campo della Guardia Nazionale venne costituito a Filadelfia dove nessuno sapeva cosa fare. Neanche Nunziante, del resto, sapeva che pesci prendere in attesa che da Napoli gli arrivassero i rinforzi. Lo scosse l’au-dacia di alcuni giovani, tra cui Paolo Vacatello, da Pizzo Marina — papa della mia benefattrice donna Francesca, sposata dott. Catalano Antonio — che nella rada di S. Venere (oggi Vibo Marina) assalirono un veliero per impadronirsi dì 25 barili di polvere e di inutilizzare il restante del carico destinato alle truppe borboniche.
I Nazionali intercettano il piano del Nunziante e lo affrontano all’Angitola. E’ forte ormai di 5.000 uomini con batteria da campo. Gli uomini di Stocco sono appena 300 ed avevano il compito di frenare l’avanzata mentre Griffe da Filadelfia doveva affrettarsi di bloccare la strada consolare tra l’Angitola e Maida. Si combattè all’arma bianca. Il Nunziante però impiegò ben 16 ore per arrivare — lui personalmente camuffato da soldato — al ponte delle Grazie in Curinga. Le cose per i Nazionali potevano andare meglio se il generale Griffe, comandante del campo dì Filadelfia non avesse giocato di coda. Le cose andarono così: il 27 giugno, di buon mattino, Francescantonio Bevilacqua spedì al Griffo un messaggio per avvertirlo delle mosse dei Regi. Griffo lo tenne in poca considerazione. Stocco accentra nelle sue mani il comando, Ordinò, infatti, che tutte le compagnie ripiegassero sopra Curinga per appostarsi nei boschi prima dell’arrivo della colonna dei borboni. Griffo temporeggia con la scusa che la Cassa non poteva essere trasportata seguendo le piste scoscese della montagna. Non lo scossero dal suo atteggiamento neanche le informazioni di alcune donne curinghesi su combattimenti vittoriosi. Restò sordo anche alle sollecitazioni dei giovani più validi. Costoro, mal sopportando la freddezza del Griffo, lo abbandonarono e quasi di corsa raggiunsero gli altri combattenti nel bosco di querce della Madonna delle Grazie. La colonna del Nunziante forte di 4.000 uomini era seguita e protetta anche dal mare. La colonna man mano che raggiungeva i « casini » dei signori li saccheggiava e li incendiava. Incendiò e saccheggiò anche il casino di Francescantonio Bevilacqua il quale, irritato e furibondo, ed anche perché, come sopra ho cennato, sosteneva i Nazionali, con i suoi dipendenti e con alcuni suoi fidi di Curinga si appostò a ridosso della via, nascondendosi dietro le querce in attesa che passassero i Regi. Il gen. Nunziante ostentava sicurezza: fece sostare la truppa tra il Turrino e il casino Bevilacqua per circa due ore e le bande militari suonavano. I nazionali, invece, con fischi, schiamazzi, lazzi e fazzoletti sfidavano gli avversar!. La sfida venne raccolta. Si accese la battaglia e durò oltre tre ore. La truppa del Nunziante che precedeva a file serrate ebbe rilevanti perdite. Non giovò loro neanche l’intervento dei Carabinieri (detti così per l’arma della carabina di cui erano dotati) e dei Cacciatori. Incalzati dai Nazionali furono costretti a ritirarsi e a disperdersi in direzione del mare.
Un vecchio militare dei Nazionali, conoscitore dei segnali del campo avverso suonò la ritirata. Ingannati da quel suono i Regi si diedero frettolosamente alla fuga. I veri sbandati erano 577 e cercavano la salvezza via mare col vapore Archimede. Nunziante, in questa occasione, non fu
all’altezza della sua reputazione: non usò i cannoni all’avamposto dell’Angitola, fu affiancato da comandanti non del tutto capaci e di qualcuno infido, non valutò sufficientemente la forza degli ideali per i quali si battevano gli avversari. Ingannato, infine, dalla topografia della zona, e anzitutto dalla strada che in quel luogo segna grande curva a gomito e cieca, non fu in grado di valutare subito l’entità dello sbandamento. Lo giudicò amplissimo, mentre erano fuggiti soltanto poche centinaia di uomini. Lui stesso sbandato tra gli sbandati, fu trovato in una cunetta che gli permise di restare inosservato ai Nazionali. I Nazionali da parte loro, a giudizio di esperti, non seppero sfruttare convenientemente gli sbagli e le incertezze dei Regi, per cui quella battaglia che poteva essere risolutiva a tutto vantaggio dei Nazionali, diede respiro ai Regi di riorganizzarsi, di ricevere rinforzi navali di truppe di terra, di trattare con i Nazionali sì che così potettero ricongiungersi con le truppe rimaste nella provincia di Cosenza al comando del generale Busacca. « Se il 27 giugno — fu scritto in quei giorni — ci avesse trovati insieme, non sarebbe rimasto un solo dei soldati di Nunziante ». E del popolo di Curinga: « Bello e sorprendente era il popolo di Curinga. Emigrava intero per la montagna portando tutti gli oggetti delle case. Le donne ci annunziavano che i Nazionali aveano vinto, che fossimo corsi, e che ci fossimo battuti che Maria SS.ma ci avrebbe salvati. Questo grido era in bocca di tutti e noi veramente con quelle parole diventammo superiori a noi stessi ». « Nel bosco della Grazia avvenne il combattimento più impegnato, ma terminato il combattimento le masse, per mancanza di comando non sapeano ove dirigersi ».
Un giudizio abbastanza duro scrive Tommaso Cianflone da Sambiase (da Murai a Stocco, 1898) sull’impetuosità di Francescantonio Bevilacqua: «Se il Bevilacqua avesse avuto la prudenza di non perseguitare gli sbandati, avanzandosi e perciò abbandonando il posto, avrebbe fin da allora salvato la libertà agli Italiani, poiché il resto delle truppe borboniche si sarebbe pure sbandato, senza poter più oltre proseguire» (p. 24).
La battaglia costò molto sangue. Il tributo maggiore lo pagarono i Regi perché proseguivano a file serrate. I Nazionali sono ricordati nella stele marmorea eretta ad iniziativa della Calabria Media e dalla Provincia nel 1873 sulla sponda del torrente la Grazia:«Alla memoria, dei benemeriti e prodi cittadini ANGELO MORELLI FEDERIGO BARONE DE NOBILI
GIUSEPPE MAZZEI ANDREA DESUMMA GIUSEPPE DE FAZIO GIOV. BATTISTA ALESSIO ANTONIO SCARAMOZZINO FERDINANDO (MUSCIMARRO FELICE SALTALAMACCHIA che in questo luogo il dì 27 giugno 1848′ valorosamente combattendo ed immolando all’amore di Patria gli affetti di famiglia le giovani di speranze furono barbaramente uccisi dai militi del fedigrafo Re Ferdinando II questa modesta Pietra pone la Media Calabria riconoscente 1873.

DOMINAZIONE ANGIOINA IN CALABRIA (1265-1442)

DOMINAZIONE ANGIOINA IN CALABRIA (1265-1442)

Nel 1265, dopo la sconfitta e la morte di Manfredi a Benevento, in Calabria ebbe fine la monarchia normanna ed iniziò la dominazione angioina con Carlo d’Angiò, fratello di Ludovico IX Re di Francia.
Con l’avvento di Carlo d’Angiò ritornò, nel 1298, alla guida della contea di Catanzaro, Crotone, Castel Monardo, ecc., la famiglia Ruffo con Pietro II.
Sotto il dominio Angioino la Calabria fu divisa in meridionale ( dall’asse S.Eufemia-Squillace in giù ), Val di Crati ( parte occidentale dell’attuale provincia di Cosenza ) e Terra Giordana ( parte orientale dell’attuale provincia di Catanzaro, Cosenza e Lucania jonica).
Nel 1400 Caracciolo Giovanni, Conte di Nicastro, acquistava da Loffredo Marzano le terre di Maida Laconia ecc.
Nel 1418 Maida e Laconia ritornano in possesso dei Caracciolo con Riccardo.
Intorno all’anno 1420 il regno di Napoli fu teatro di diversi scontri tra i sostenitori di Luigi d’Angiò e la frazione favorevole ad Alfonso d’Aragona, nominato figlio erede dalla Regina Giovanna II.
Ottino Caracciolo che, insieme ai fratelli Gurello e Riccardo, era proprietario dei feudi di Maida e Laconia simpatizzava con gli Angioni; per questo motivo gli furono confiscati tutte le proprietà.
Pochi anni dopo Ottino Caracciolo e Luigi III d’Angiò sconfissero gli aragonesi e per riconoscenza gli confermarono la contea di Maida e Nicastro il 12/10/1427 (10). L’11/11/1427 Ottino nominò suo fratello Luise governatore della contea di Maida e Laconia.

  DOMINIO SPAGNOLO IN CALABRIA

(1503-1734)

Alla fine del 1400 Carlo VIII, Re di Francia del ramo angioino, avanzò pretese sul regno di Napoli, occupato dagli angioini prima che venisse loro tolto dagli aragonesi.
Nel 1494 Carlo VIII scese in Italia per conquistare il regno ma dovette ritirarsi rapidamente perché ostacolato da un esercito mandato dal papa, dal Re di Aragona, da Venezia e da Lodovico il Moro duca di Milano. L’impresa fallita a Carlo fu tentata nel 1499 dal suo successore Luigi XII, il quale accampava diritti sia sul regno di Napoli e sia sul ducato di Milano, quale discendente di Valentina Visconti. Luigi XII, alleandosi con i veneziani, si impadronì del ducato di Milano; successivamente si rivolse contro il regno di Napoli trovando come ostacolo Ferdinando, Re di Aragona, imparentato col Re di Napoli. Dopo un primo accordo di spartizione del regno col Re francese, alla insaputa del Re di Napoli, Ferdinando e Luigi vennero alle armi per ragioni di confine il 1504; i francesi furono sconfitti ed il regno restò agli aragonesi di Spagna. Durante il dominio spagnolo il meridione fu teatro di diversi fenomeni negativi il brigantaggio, la violenza di ogni genere, il fanatismo religioso, la corruzione di diversi funzionari del regno, la corruzione dei feudali ed inoltre l’aumento continuo della pressione fiscale. Contrariamente una migliore stabilità politica e una lunga pace portarono gradualmente ad un notevole progresso.

Il 2 Aprile 1507 la gente di Calabria provò molta tristezza per la morte del Santo di Paola avvenuta in Francia.

Nel 1516 moriva in Spagna Ferdinando II, Re di Aragona, lasciando il trono al nipote, per via della madre, Carlo di Austria. All’enorme e minacciosa potenza di Carlo si ribellò Francesco I, Re di Francia, col quale combatté ben sei guerre.
Nel 1528, il conte Borrello ricevuto l’ordine dall’imperatore francese Carlo V di soccorrere la città di Catanzaro fu contrastato da Giacomo Tibaldi , viceré di Cosenza; lo scontro decisivo si ebbe il 12 luglio 1528.
I capitani imperiali inflissero una decisiva sconfitta ai francesi. Nello stesso anno la Calabria fu sconvolta da una rovinosa peste.(citazione F.A. Cefalì Da Monsauro a Montesoro)

DAI MOTI GIACOBINI ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE

DAI MOTI GIACOBINI ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE

Tratto da: CURINGA: Recuperi di storia e di vita sociale di Antonio Bonello
Anno 1799
La Rivoluzione Francese ha scosso il mondo. Crollarono tante strutture vecchie. Mosse i popoli che, man mano, presi sottobraccio da alcuni volenterosi, dichiararono di essere capaci di autogoverno. Le piccole REPUBBLICHE si diffusero a macchia d’olio, ma per lo spazio di un mattino. La massoneria soffiava sul fuoco, i vescovi ed i predicatori denunciavano al popolo, perché ne tirasse le conseguenze, che « dalla calata (incursione Gallorum, inimici Crucis Cristi) fides radicitus e-versa, diffusi senza scrupolo gli scandali, è professato il materialismo e che le autorità imposte dai francesi avversano il matrimonio religioso » (Relazione N. 35. La Relazione N. 37 ritorna sull’argomento). La proclamazione della repubblica era accolta con favore ed esultanza da vasti strati della nobiltà antica e nuova, non così dal popolo, il quale trovava modo di abbattere l’ALBERO DELLA libertà per sostituirvi la CROCE.
Così a Nicastro, a Maida, a Cortale, a Filadelfia. Anche a Curinga, in un momento di euforia, date le più volte cennate misere condizioni delle masse popolari, avrà innalzato l’albero della libertà. Quanto è durata l’ubriacatura? Quanti, per letture più estese, sembrano più aggiornati asseriscono che l’ubriacatura giacobina è durata appena un giorno, dalla mattina alla sera. Neanche è stata segnalata nigro lapillo. Nella notevole corrispondenza intercorsa tra la Curia Vescovile di Nicastro e il Marchese di Fuscaldo avente per oggetto Curinga, 2480 abitanti e di pertinenza nello spirituale e temporale dei Buchi di Bagnara, e parroci Domenico Maggisano, Gaetano Senese e Domenico Pompò, neanche minimamente si accenna a comportamenti invisi alla Monarchia Borbonica NapoletanaDi «Politiche combulzioni (sic!), delle quali se ne sperimentano li perniciosi effetti che scuotono la pubblica autorità », si fa cenno in un esposto « humiliter porrecto S. R. M. » nel 1802 dai Notari Giuseppe Calvieri e Sebastiano Devito contro il sacerdote secolare Vincenzo Lo Scerbo. La fraseologia è in perfetta sintonia con tutta la letteratura antigiacobina.
Aggiungasi l’intenzione di un tantino d’incenso perché S.R.M. scagliasse i richiesti fulmini contro il Lo Scerbo. (Cfr. Documenti/fotocopie). Di certo, comunque, la storia registra che la poliforme massa confluita nell’armata realista (detta Armata Cristiana) del cardinale Ruffe — riordinata a Mileto — da Mileto proseguì per Monteleone e Pizzo, quindi i 4.000 uomini proseguirono per Curinga (6-7 marzo 1799). Il Ruffo fu accolto col suono festoso delle campane — come quasi ovunque — e dal popolo festante. Si cantò il Te Deum. L’armata aumentò di alcune unità spinti dalla fame o per regolare così alcuni conti sospesi con la giustizia. Luogotenente nella diocesi di Nicastro per la zona fu nominato il dottore nell’una e nell’altra legge (J.U.D.) don Giovanni Sorrentino con sede in S. Pietro a Maida.Da Curinga proseguì per Maida, Borgia, Catanzaro.

 Guerra Mondiale 1915-1918

II 28 giugno 1914, a Serajevo, la pistolettata di Gravilo Prinzip, freddava l’Arciduca d’Austria Francesco Ferdinando ed erede dell’Imperatore. La sua eco raggelò l’Europa. Il 23 luglio fu la guerra: la paventata rissa generale era ormai scoppiata. Si mobilitarono gli eserciti e su sollecitazione dei Pastori di anime, si mobilitarono gli oranti e le forze della carità. Pio X non ha resistito: moriva a meno di un mese dalla «funestissima guerra… alle, cui conseguenze — diceva — nessuno può pensare senza sentirsi opprimere dal dolore». Benedetto XV si premurava di ordinare all’arcivescovo di Colonia: «Soccorri i feriti senza distinzione di religione e di Patria».
In Italia nonostante i disordini provocati dalle fazioni politiche, e, forse, anche per questo, e il terremoto di Avezzano ed i conseguenti grossi problemi, la fazione degli interventisti spingeva il governo a rompere con la Triplice e di passare con le armi a fianco dell’Intesa, previa promessa di ottenere il Trentino, il Tirolo meridionale, Trieste e la Dalmazìa. Io, nascendo (1916), mi trovai da questa parte: mio padre volle che col nome di famiglia mi portassi, almeno negli atti ufficiali di rilievo, i nomi di Trieste Trento. ( II 24 maggio 1915… l’esercito marciava.
Era costituito dalle classi 1876, 77, 78, 79, 80, 81 e dai soldati di leva della classe 82.

I maggiorenni di Curinga erano interventisti. L’Amministrazione attuava le piccole cose ordinarie e spingeva lo sguardo anche al futuro. Le cose ordinarie: acquisto petrolio per l’illuminazione pubblica, manutenzione stradale, sistemazione fontanine di Notar Cola e Tre Canali, acquisto clarini e piatti per il corpo musicale, casse da morto per i poveri, nuove cripte al cimitero (cfr. Delibere).
Le cose straordinarie: carrozza per il servizio postale, pratica per l’acquedotto, mutuo per il costruendo edificio scolastico (lire 132.404). Il lavoro di segreteria aumenta1 e alla vigilia dell’entrata in guerra (22 maggio) il Consiglio Comunale delibera di chiedere un vice segretario.

Dal 24 maggio in poi, all’amministrazione si aggiungono altre gatte da pelare. Primo in ordine di tempo: il medico Pietropaolo Francesco è chiamato per il servizio militare; ne resta uno solo, insufficiente per un comune di cinque mila abitanti; ed anche il secondo potrebbe essere chiamato. Il 28 maggio 1915, con decorrenza 1.6.1915 e per due mesi, viene affidata la supplenza al medico condotto di S. Pietro a Maida dott. Antonio Catalano e per il secondo dott. Antonio Ferraro, medico condotto paesano, si chiede l’esenzione dal servizio militare. La proposta è fatta dal Consigliere Giuseppe Cirianni e accolta dai 13 presenti. Tra gli assenti i consiglieri chiamati per il servizio militare.
Altri problemi ordinari nel periodo straordinario: approvvigionamento di grano, panificazione e distribuzione; sussidi alle famiglie dei richiamati; lievitazione dei prezzi; approntare locali e pagliericci per i possibili profughi; personale per alcuni di questi servizi (confronta Delibere dei Consigli Comunali periodo 1915-18 presso l’archivio comunale). Per la ripartizione dei generi alimentari, «ha fatto quanto di meglio si poteva, con grande disinteresse e commendevole spirito di patriottismo per accontentare le esigenze del pubblico, il maresciallo a riposo Giuseppe Tagliati».
Per i materassi lo specialista in questo genere (veniva chiamato «u matarazzaru») Vono Giuseppe fu Giuseppe. Ricompensa per manifatture e filo lire 8,65. Al Tagliati lire 60, oltre lire 15,45 per spese trasporto, sacchi ecc.
Alle famiglie dei militari era stato demandato il compito e il privilegio dalle Autorità militari stesse di confezionare, dietro ricompensa e fornitura della materia prima, indumenti di lana per i soldati.
Ecco le mercedi corrisposte: sciarpe da lire 1,40 a L. 1,70 ciascuna; calze al paio da 0,50 a 0,70; manichini da 0,40 a 0,80 al paio; ventriere da 1,20 a 1,50; ginocchiere al paio da 0,60 a 0,80; guanti al paio 0,70 a 0,90. (Cfr. F.U. p. 147, sett. 1915). Mons. Giovanni Regine, sollecitato a ciò dalle Autorità predette, ha caldeggiato l’attuazione in tutte le parrocchie della sua Diocesi di Nicastro. Venne attuata in Curinga per l’interessamento combinato dell’amministrazione comunale e dall’arciprete curato don Vincenzo Caruso

Caduti il 27 agosto 1860.

Su una seconda lapide vi sono incisi i nomi dei caduti il 27 agosto 1860.
La terza lapide « Ai Due strenui Siciliani caduti anch’essi nel combattimento del 27-6-1848 dei quali fino i nomi ci ha nascosto avversa sorte in attestato di ammirazione e grato animo I Fratelli Calabresi 1873».
Gli atti n. 52, 53, 55 dei defunti dell’anno 1848 nella Parrocchia di Curinga si riferiscono a questa battaglia ed hanno riscontro parziale — a mio parere — ai nominativi della stele marmorea.

Il nominativo della stele GIUSEPPE DE FAZIO è, a mio parere, errato dovendosi leggere DE FEZZA GIUSEPPE, come all’atto n. 53 che per scrupolo trascrivo inserisco in fotocopia : « Anno Domini 1848 die vero 27 iunii Curingae Joseph DEFEZZA vir… filius Thomae et Conceptae Fruci aetatis suae ann. 40 caruit omnibus Sacramentis quia occisus a Reggia Truppa in loco dicto Malia, animam Deo Reddidit, cuius corpus ab oeconomo curato d. Petro Bianca benedictum sepultum fuit in Ecclesia S. Mariae Gratiarum. Et in fidem. Vincentius Sgromo archipr. Curatus ».
Se poi è stato ucciso anche un De Fazio Giuseppe questi dovrebbe essere uno dei fratelli di Grazio De Fazio, Sambiasino o Nìcastrese (cfr. Cianfkme, Da Murat a Stocco, p. 21). Se è così i nominativi della stele sono incompleti e dovrebbero completarsi col nominativo Defezza « vir »… Concetta Piraino dal 23.11.1842.
D’accordo sul nominativo di Andrea De Summa, Curinghese come il precedente, ucciso in località Ciceri e seppellito alle Grazie (atto n. 52). L’atto n. 55 si riferisce a d. Giuseppe Mazzei che intervenne alla battaglia dell’Angitola con un reparto di Cosentini.
Fu ucciso dai Regi in località Scammaci. Vien detto di S. Stefano, e marito di donna (dalla graficorretta lo Sgromo è incerto sulle precise generalità della moglie del Mazzei. E’ vero che il Mazzei è di S. Stefano. Siamo d’accordo con tutti gli storici con una doverosa precisazione. Don Giuseppe Mazzei e d. Vincenza Vecchi (Vesci) da Nicastro contrassero matrimonio 2 in Curinga, precisamente « domi » (in casa) per dispensa rev. mae Curiae Episc. Neocastrensis il 20 ottobre 1832. Presenti al matrimonio come testimoni don Saverio Rondinelli e don Francescantonio Bevilacqua e il parroco Ottavio Senese. Presentazione degli sposi: virgines (celibi) « Dominus Joseph Mazzei incola Terrae S. Stephani in Provincia Calabriae Superioris etc. ». Muscimarro è di Montesoro. Sconosciuti i due siciliani. Memorande le gesta del siciliano più giovane, un ragazzo di appena 16 anni. Un soldato con un colpo di sciabola gli tagliò la testa. L’ostessa della taverna Bevilacqua, invece, fu squartata perché aveva osato opporre resistenza. Ma le donne umili non hanno gli onori dei monumenti.
Chi volesse ulteriormente documentarsi è invitato a leggersi le circolari e i bollettini del Comando Generale di Salute Pubblica della Calabria Ultra seconda e del Comitato Centrale. Alcuni bollettini (il n. 5 per esempio) sono datati Curinga, 12-13 giugno 1848, alle ore 5 dì notte.
I caduti della parte opposta (cfr. O. DITO, La Rivoluzione Calabrese del 48 « furono tutti raccolti e fatti seppellire in una chiesa campestre dal Pievano di Maida che ne solennizzò i funerali ». Esclusa la Chiesa delle Grazie dove furono seppelliti i Nazionali, la chiesa cui si riferisce il Dito dovrebbe identificarsi nella cappella dedicata a S. Liberata ubicata, l’unica, tra gli ulivi di Campolungo, dove io celebrai una delle mie prime messe (21 sett. 1942).

Il Platano di Vrisi

Il Platano

Un platano gigante fra i boschi

CURINGA – In un bosco nel camune di Curinga, esiste un platano di eccezionali dimensioni, la cui circonferenza alla base è di 20 metri. Per quanto concerne l’età dell’albero alcuni botanici hanno stabilito che ha oltre 1000 anni di vita.Fu probabilmente, uno dei monaci Basiliani, che costruirono il vicino Eremo di Sant’Elia nel XI secolo, ad inserire nel fertile terreno la pianticella che sarebbe, poi diventata l’attuale colosso naturale.Se si considera che l’albero più grande d’Italia, il castagno dei Cento Cavalli di Sant’Alfio in Sicilia, misura 22 metri si può affermare, che «questo platano» è, per dimensioni del tronco, ai primissimi posti nella classifica dei giganti vegetali della Penisola. Per rendersi ulteriormente conto della grandezza di questo “gigante della natura”, basta pensare che, in Calabria, ne esistono altri ma, di dimensioni più ridotte:
Nel comune di Cotronei, demanio Pollistrea esiste il Tempio dell’amore con circ. di 10,30 m;
Nel Villaggio Racisi, un Pino Larico raggiunge la circonferenza di 13,00 m;
In Sila Piccola, comune di Mesoraca, un Abete Bianco ha la circonferenza di 16,65 m.
Tra le cose che stupiscono di più, oltre alle dimensioni del vegetale, è l’enorme cavità che vi è all’interno dell’albero». Il platano è molto noto nel centro di Curinga tanto che all’ingresso del paese è stato realizzato un mosaico che lo raffigura ma resta sconosciuto nel resto della Calabria.In effetti, neppure molti dei paesi vicini a Curinga sanno dell’esistenza di questo straordinario arbusto. E «un monumento» del quale si rimane incantati e che non può rimanere chiuso nel dimenticatoio come, purtroppo, tante altre cose della nostra Regione».
E’ proprio vero che in Calabria abbiamo un sacco di bei posti, di bei monumenti di belle oasi naturali e tantissime altre belle cose, alle quali però non viene dato il giusto risalto.Così, molto spesso ce ne ndiamo in vacanza in posti lontani, senza renderci conto di quanti posti meravigliosi non abbiamo ancora visitato nella nostra Terra e che varrebbe davvero la pena scoprire.

Il Monastero di Sant’Elia Vecchio

Il Monastero di Sant’Elia Vecchio

Il Monastero di Sant’Elia Vecchio

II monastero di S. Elia “Vecchio” si trova in località Corda (a circa 400 m s.l.m.), pochi chilometri dopo il paese di Curinga, sopra una grande radura sulla quale affiorano banchi rocciosi.

E’ protetto a nord da una fitta pineta, mentre dagli altri lati si affaccia su una verde e profonda vallata, ai piedi della quale scorre il fiume Turrino.

L’ampio panorama che si gode dal S. Elia comprende buona parte del golfo di S. Eufemia e quindi della piana di Lamezia, da sempre una zona strategica importantissima, essendo il punto più stretto per l’attraversamento della Calabria dallo Ionio al Tirreno (la distanza tra i due mari è di circa trenta chilometri, e la cresta di displuvio si abbassa fino a 280 m s.l.m.).

La storia del S. Elia “Vecchio” si ricostruisce molto male attraverso le pochissime fonti scritte, ma con la lettura stratigrafica delle murature e con i vari confronti con analoghe strutture di contesti italiani e stranieri, è stato possibile formulare una attendibile cronologia assoluta delle varie fasi del monastero.

II monastero è composto da una grande area interna di forma rettangolare, con i lati corti a nord e a sud, e da due corpi di fabbrica esterni, uno sul lato ovest, l’altro sul lato sud.

La struttura comprendeva anche la presenza di un

piano superiore, del quale restano ormai ben poche tracce sugli elevati dei muri perimetrali.

Praticamente tutti i muri (l’unica eccezione è costituita dal vano cupolato) si trovano in pessimo stato di conservazione, e diverse aree sono ancora da scavare. In totale si contano attualmente quattordici ambienti (Unità Funzionali)”.

Il primo corpo di fabbrica è costituito dalla chiesa caratterizzata da un’unica navata rettangolare e da un vano absidale quadrato.

Quest’ultimo, oggetto del recente restauro, rappresenta senz’altro la parte più importante del monastero, sia perché ci è giunto praticamente integro, sia perché contiene gli elementi architettonici più importanti.

Si tratta di un vano quadrato (circa m 5×5), di proporzioni accentuatamente verticali, sul quale, mediante pennacchi sferici, si inscrive un tamburo circolare sormontato da una cupola in pietra.

Sulla cupola si trovano ancora i resti della lanterna rettangolare, in pietra, che circondava l’occhio circolare e svasato ad imbuto.

La luce entrava attraverso due coppie di finestre perpendicolari tra loro, poste sui lati est e ovest. I lati del quadrato sono caratterizzati dal differente spessore, maggiore per il lato nord , che riceveva le spinte del terreno retrostante, minore per quello sud nel quale si apriva un grande arco tamponato in epoca successiva. Internamente il rapporto tra quadrato di base e tamburo cilindrico è sottolineato mediante una fascia di blocchi in pietra arenaria, finemente scolpiti con un motivo a treccia convessa con bottone centrale.

Il punto di collegamento tra la cupola ed il tamburo è anch’esso sottolineato

da un’altra fascia di blocchi dello stesso materiale, scolpiti con modanature. Nella navata, della quale resta solo il perimetro, si notano le tracce di tre aperture, una posta sul lato corto sud, le altre due tamponate successivamente, sul lato est. Un’altra apertura sul muro est della navata è quella che, attraverso una coppia di scalini, costituisce l’accesso ad una cappella nell’area interna.

Lo stemma in pietra, il cui disegno è sconosciuto sui testi di araldica più importanti, è certamente il frutto della fusione degli stemmi di due famiglie nobili, in seguito al matrimonio di due rampolli”.

La costruzione di un grande monastero, in questa zona, potrebbe essere collocata cronologicamente alla fine del IX sec., all’epoca della grande controffensiva bizantina contro gli arabi “, seguita da una riorganizzazione del territorio anche dal punto di vista ecclesiastico.

Terme romane “Mura di Elleni”

Terme Romane

Terme romane “Mura di Elleni”

Nel vecchio alveo del Torrente Turrino, a poche centinaia di metri dall’abitato di Acconia, esistono dei ruderi denominati volgarmente «Mura di Elleni», risalenti al IV – V sec. d.C. Sono resti di un complesso termale di notevoli proporzioni che ipotizzano la presenza nelle aree circostanti di ville e abitazioni risalenti allo stesso periodo se non anteriori.

Parte di detti ruderi affiorano al piano terra attuale, mentre altri contigui si elevano fino all’altezza di quasi quattro metri, La costituzione della muratura di detti avanzi, è in gran parte a sacco con ciottoloni di fiume, pezzi di mattone, malta ordinaria, nonché rivestimento in mattoni di argilla dalle dimensioni di cm. 15 x 4.

La muratura in elevazione è in gran parte a mattoni di evidente carattere romano. Sono ben visibili alcune nicchie, e addossati alle pareti, esistono “tuboli” di argilla rotondi e piatti. Sono le condutture delle acque calde e dei vapori al calidarium.

È evidente che sotto lo strato di terra alluvionale esiste per lo meno un altro piano dell’edificio. Nella muratura del rivestimento si notano qua e là mattoni di argilla di dimensioni maggiori di quelli sopra citati, ma nessuno di essi porta una sigla. Sono state intraprese alcune e limitate campagne di scavo che hanno portato alla luce interessanti oggetti: monete, e vari materiali fittili.

Attualmente in attesa dell’apertura del museo a Curinga detti materiali sono alloggiati in strutture comunali.