Don Elia Pallaria

Don Elia Pallaria

Scheda completa di: D. Elia Pallaria


D. Elia Pallaria Non so perché, ma un giorno, circa due anni prima della sua morte, D. Elia Pallaria mi avvicinò con un atteggiamento piuttosto impacciato che nascondeva la sua timidezza e mi chiese, sottovoce, se poteva farmi vedere qualche sua poesia.
Dopo circa un mese mi consegnò tre fogli con due poesie dialettali e una in lingua, pregandomi di esprimere il mio giudizio, se erano o meno degne di essere pubblicate. Passarono due mesi e D. Elia attese, senza sollecitare una risposta, e, quando lo incoraggiai perché le pubblicasse, sorrise, agitò tutta la sua persona con un movimento a dondolo e una luce gli illuminò gli occhi. Quelle tre poesie erano delle perle, specie le due dialettali. Peccato che non ci siano nel presente volume.
D. Elia avrebbe voluto che mi incaricassi io della pubblicazione… non osò o non ne ebbe il tempo?
È solo questo che mi abilita a scrivere queste note.
D. Elia Pallaria nacque a Curinga il 27/1/1912.
Fu ordinato sacerdote il 29/6/1937 e, dopo una permanenza nella solitària Martirano, fu parroco nomade a Bianchi (1942-45), Accaria (1945-53), Amato (1953-70), Acconia (1970-81), rimanendo ininterrottamente dal 1945 padre spirituale della Congrega del Carmine in Curinga, quasi cordone ombelicale che lo teneva avvinto alle sue origini da cui non seppe o non volle mai sradicarsi. Se ne andò silenziosamente il 22/12/1981.
Un poeta, nella misura in cui è tale, denuda se stesso, pur nella trasfigurazione artistica, anche quando si riveste di forme classicheggianti o di ironia dialettale.
Come potrebbero delle semplici note pretendere di schiudere gli orizzonti di un tempo chiuso; di rassicurare il cuore Impaurito nella bufera o di riscaldarlo nel gelo di dicembre; di accompagnare la solitudine delle ore, dei giorni, degli anni, mentre è pesante l’erta salita; di dare risposte mentre profonde rughe si scavano nell’anima tra contrastanti sentimenti, troppo intensi per non essere riconosciuti, ma mai pienamente accettati?
E tuttavia nel suo cuore di perenne bambino, capace di estasiarsi davanti a semplici gioie e bisognoso di dimensioni autentiche, brilla la luce della fede che si schiude in preghiera:
Inondami o Signore, de la tua calda luce, sì che intera, e ognor presente, io veda l’effimera realtà, che il cuor invaga.
Sicuro, dietro il tuo lume, il mio passo proceda.

Don Natale Colafati

Dott. Fortunato Perugini

Dott Fortunato Perugini

Dottore Fortunato Perugini


Curriculum Vitae del dottore Fortunato Perugini

II dottore Fortunato Perugini è nato a Curinga in provincia di Catanzaro il 15 aprile 1906.

Dopo il conseguimento della maturità classica, iscrittosi alla facoltà di medicina e chirurgia presso l’allora Regia Università di Napoli, ha conseguito la laurea il 26 luglio 1933, discutendo la tesi su “Edema polmonare sperimentale “. Sempre presso la stessa università, dopo la laurea, conseguì i seguenti esami di specializzazione (dicembre 1933): clinica pediatrica, clinica medica, clinica chirurgica, clinica ostetrica, medicina legale e medicina del lavoro, che gli permisero di curare con oculatezza e determinazione le varie malattie. Il dottore Perugini seguì la Scuola del professar Frugoni, celebre Ordinario di Clinica Ostetrica, al cui insegnamento egli si riferì sempre nel lungo lavoro a favore dei moltissimi malati che a lui si rivolgevano con grande fiducia. Dopo la laurea e le specializzazioni, ritornato a Curinga, suo paese natale, iniziò la sua esperienza di medico chirurgo da libero professionista.

» Oltre a compiere la professione medica, fin dal 1937 il dottore Perugini ricoprì più volte la carica di Giudice Conciliatore presso la pretura di Maida.

> Negli anni Quaranta servì la patria con l’Incarico di Capitano Medico presso il Comando Militare di Salerno.
> Dal 1943 al 1945 fu più volte commissario prefettizio al Comune di Curinga.

> Fu primo sindaco della Democrazia Cristiana di Curinga dal 1946 al 1952, con qualche alternanza.
>Il 22 giugno del 1949 fu chiamato a dirigere l’ambulatorio antimalarico ad Acconia di Curinga.
* Dal 1964 al 1965 svolse l’incarico di medico condotto a Curinga.
> Il 26 gennaio del 1976 fu nominato medico scolastico.
> Il 25 maggio del 1940 gli fu conferita la ”Croce di Cavaliere nell’Ordine della Corona d’Italia”.
> Nel 1949 è stato insignito dall’Ordine Militare di San Giorgio di Antiochia “Cavaliere Ufficiale della Stella al Merito “.
> Negli anni 1956-57 fu Priore della Confraternita di Maria Santissima del Carmelo interessandosi alla messa in opera di vari interventi utili per la ristrutturazione del Santuario, fra cui l’integrale ristrutturazione del tetto.
• L’Accademia per lo Sviluppo Economico e Sociale il 13 marzo del 1983 gli conferì la “Confìrmatio Magna a Laboris Fide”, per la sua fede e perseveranza nel lavoro, annoverandolo tra i benemeriti del mondo del lavoro, dell’arte e della cultura.
• II 21 febbraio del 1978 gli conferirono la Medaglia d’Or per il 45° anno d’iscrizione all’Ordine dei Medici della provincia di Catanzaro.
• Fu soprannominato “Medico dei poveri” verso i quali si rivolse sempre con amore, andando loro incontro nelle più svariate difficoltà.
Il dottore Perugini morì a Curinga il 12 Novembre del 1988. Oggi, come allora, tutta Curinga può certamente dire di esser stata servita dall’instancabile sua missione di medico e di persona impegnata nel sociale.
N.B. Il curriculum consta di n. 4 facciate ed è stato redatto dal figlio del dottore, il  Maestro

Sig. Basilio Carlo Perugini

Dott Vincenzo Sgromo

Dott Vincenzo Sgromo

  Vincenzo Sgromo: un esempio da additare ai posteri.

Da tempo ormai presagiva l’evento se le sue attenzioni erano rivolte a ciò che avrebbe lasciato dietro di sé, organizzando perfino le più minuscole incombenze quotidiane, disseminando qua e là su foglietti, posti nei punti strategici, raccomandazioni, indicazioni, suggerimenti, insegnamenti. Aveva pregato la moglie, finanche, di dare alle fiamme alcuni suoi scritti cui aveva atteso negli ultimi anni di vita per conferire un senso agli “otia” , quanto mai indigesti, prescritti, in maniera perentoria, dalle varie, reiterate avvisaglie di decadenza fisica che ne hanno segnato, incrinandola irreversibilmente, la forte fibra. “Bettina, brucia quelle scartoffie” – aveva detto un giorno come per far capire che ormai con le cose terrene, che non avessero l’essenza ed il sapore degli affetti più intimi, non voleva più rapporti e che si era disposto a spiccare il volo verso il mondo dei Giusti.
E così, in una mite mattinata di gennaio, dopo aver sorbito la consueta fragrante tazza di caffè in cui l’ineffabile consorte aveva versato, insieme allo zucchero, i primi e, ahimè, ultimi cucchiaini delle quotidiane affettuose premure, è volato, con una naturalezza senza confini, da una vita all’altra , quasi accompagnato carezzevolmente dalle mani della compagna nell’abbraccio infinito di Tino che si sarà presentato puntuale all’appuntamento, pronto ad accogliere l’impercettibile respiro-sospiro del padre.
Gli era accanto, sicuramente, Ivana, la dolce, tenera fidanzata. Insieme avranno terso dal suo volto trasfigurato le perle cristallizzate della sorgente di lacrime accesa dallo schianto sulla montagna di Antalya, d’onde eran virate, su familiari e amici, nubi perenni di dolore e di pianto che, quaggiù, continuano ancora a straziare le pareti della loro anima da quel melanconico settembre del 1976.
Aveva imboccato così la rampa dei ponti del Cielo la vita normale di un uomo straordinario che ha seminato lungo il suo cammino esempi luminosi di alto sentire con la semplicità che solo le persone grandi riescono a coniugare in ogni circostanza, attingendo a piene mani alle riserve inesauribili del proprio cuore, per tutto l’arco dell’esistenza. Una vita, la sua, ferita più volte negli affetti più cari, ma costellata, per quanto concerne la sfera intellettiva, di successi a catena, di eventi eclatanti ed esaltanti perseguiti, però, con determinazione e sforzi sovrumani e vissuti con estrema riservatezza e semplicità, per la convinzione assoluta che non sono le affermazioni personali a costruire la vera storia di un uomo, ma ciò che egli riesce a fare per il prossimo: il suo intendimento principale è stato sempre di operare bene per il Bene di tutti. In qualsiasi campo sia stato chiamato a dare il suo contributo per circostanze fortuite, per libera scelta, per doveroso ufficio, ha profuso sempre il meglio di sé onorando ogni impegno con puntualità, zelo, coerenza, rettitudine, senso di giustizia, irrorati sempre di palpabile, densa umanità. Egli è stato un uomo che ha dato alla sua vita delle direttive ferree e inderogabili per poter essere magnanimo e accondiscendente con gli altri; un uomo che ha trattato se stesso con rigore e severità per poter essere clemente e disponibile con la gente, ligio ed ossequente al dovere con estrema abnegazione e fino al più alto sacrificio per poter essere indulgente e tollerante con chi gli era, di volta in volta, di fronte.
E soltanto per essere libero di dare quanto più possibile, era estremamente necessario per lui elevarsi fino alla vetta dei valori più sublimi e profondi della vita; era indispensabile innalzare ad
essi altari perenni di culto nel proprio cuore e nella propria mente. Si mise a coltivarli con un impegno e una passione commoventi fin da ragazzo, illuminato dall’esempio del suo maestro delle ultime classi e tacitamente incoraggiato e protetto dall’affetto smisurato della mamma.
Dotato di vivida intelligenza, forte della solida preparazione di base acquisita nella quinta e nella sesta elementare dirette dal maestro Vincenzo Sestito (del quale serberà per tutta la vita un grato ricordo), assistito dalla sua passione per lo studio, sorretto da una eccezionale forza di volontà, incalzato dalla sua insaziabile sete di conoscenza, spinto dal desiderio di migliorare il tenore della sua esistenza e animato dalla speranza di potersi rendere utile al prossimo, con la consapevolezza che solo attraverso la cultura si poteva volgere in positivo il corso della propria storia e di quella dei propri simili, lesse con avidità quasi tutti i libri esistenti in Curinga, presso la biblioteca comunale e presso quelle di famiglia dei molti curinghesi disposti a cederglieli in prestito riuscendo a costruirsi una preparazione ampia e profonda – impresa veramente eroica per quei tempi – in quasi tutti i campi dello scibile umano. Attendeva, sempre da autodidatta, allo studio della letteratura italiana, della grammatica e della letteratura latina, del greco, della filosofia e della pedagogia, della musica, dell’algebra e della geometria, della fisica e della chimica, della storia e della geografia, …. sempre a spese dello svago e del tempo previsto per il sonno, chè anch’egli, come tutti i ragazzi dell’epoca, aveva delle mansioni da svolgere durante la giornata per aiutare la famiglia.
Divorava i classici della letteratura mondiale che riusciva a recuperare e non lesinava tempo allo studio delle lingue straniere. E intanto scrutava l’orizzonte con l’ansia di aprirvisi un varco e superare quei confini che frenavano lo slancio della sua curiosità, che tarpavano le ali alla sua intraprendenza, che impedivano alla sua mente di svicolare dagli angusti tepori del paesello natio e di librarsi nella brezza fresca e rivitalizzante d’un universo culturale più ampio e profondo.
Diede ala alle sue aspirazioni e gonfiò di fiducia la vela delle sue speranze la chiamata per prestare il servizio militare, ma quale non fu la delusione e l’amarezza quando si vide destinato dalla Commissione di leva alla caserma di Vibo Valentia, proprio ad un passo da casa!
Non si perse d’animo ed estremamente convinto che “faber est suae quisque fortunae” (ciascuno è artefice della propria sorte), come sentenziava Appio Claudio Cieco, decise di scardinare il corso degli eventi avanzando richiesta di iscrizione alla scuola per sottufficiali. Fu mandato a Nocera Inferiore e, alla conclusione della scuola stessa, a Bressanone, nel Trentino Alto Adige, come sergente nel corpo degli Alpini.
Un altro colpo di remi alla barca della sua esistenza lo inferse quando chiese ed ottenne di essere inviato in Africa, in quella Etiopia in cui erano in atto le operazioni di conquista dell’Italia. Lì avrebbe potuto esaudire il suo fervente spirito di avventura, essendosi accorto che la vita di caserma si stava assestando su binari di monotonia e di spreco delle risorse intellettuali, spirituali ed umane di cui aveva ricolmi la mente e il cuore.
Trascorre il 22° Natale della sua gioventù ed il Capodanno 1936 con i commilitoni della Divisione Tevere sul piroscafo Lombardia che attraccherà a Mogadiscio qualche giorno dopo. Rimarrà in Somalia fino a luglio prima di inoltrarsi nello stato etiopico occupato completamente appena due mesi prima dalle nostre truppe. Gli viene affidato un contingente di indigeni che dovrà addestrare e formare per contribuire al progresso culturale, economico e sociale di quelle popolazioni e per garantire la loro sicurezza costantemente minacciata da tribù ribelli. L’attività militare e umanitaria non ferma i suoi studi e, fidando sempre ed esclusivamente sulle sue forze, da autodidatta cronico qual era, consegue ad Addis Abeba il diploma di maestro elementare che gli apre le porte della Scuola per allievi ufficiali la cui frequenza si conclude con il conseguimento dei gradi di sottotenente. Inutile dire che era intanto riuscito ad imparare l’amharico e l’arabo per poter formare, in maniera ineccepibile e senza interposta persona, militarmente e culturalmente i soldati reclutati in loco e per comunicare con le genti abissine. Non mancano gli atti di eroismo se
gli vengono conferite quattro medaglie al valore e numerosi encomi e se si merita l’appellativo de “il leone” dai soldati del Comando per le sue temerarie imprese, i suoi intrepidi slanci.
Lo scoppio della seconda guerra mondial e le tragedie che si consumano in ogni parte della terra, e soprattutto in Europa e in Italia, non risparmiano nemmeno l’Africa che, in seguito, verrà scelta dagli anglo-americani come base per sferrare l’attacco mortale alle truppe dell’Asse. Nella primavera del 1941 gli inglesi invadono l’Etiopia e annientano la resistenza dei reparti italiani ed il Nostro, alla testa del suo contingente di fidi Ascari si impegna a rallentare la loro avanzata per permettere alle forze regolari, guidate dal Duca d’Aosta, Amedeo Umberto di Savoia, di organizzare la difesa e fermare l’esercito britannico. Sopraffatto, dopo impari lotta, cade nelle mani del nemico. Comincia per lui un’autentica Via Crucis da un campo di prigionia all’altro dove viene fatto oggetto di soprusi indescrivibili e costretto a subire mortificazioni di ogni genere per l’eticità del suo comportamento e lo sdegnoso e deciso rifiuto di firmare disonorevoli documenti di cooperazione con il vincitore.
La sofferenza più insopportabile per lui è procurata dall’attacco sferrato alla sua mente attraverso la recisione dei canali culturali. Si salva in parte perché, nell’autentica babele di ogni campo di prigionia, egli cerca di dipanare l’ingarbugliata matassa di un’accozzaglia di idiomi che si incrociano in maniera convulsa e confusa. Lo sforzo profuso per la comprensione dei vari linguaggi non solo preserva il suo intelletto dal processo di fossilizzazione programmato dagli aguzzini di turno, ma gli permette di capire e di parlare lo spagnolo, il portoghese, il francese, il tedesco e, soprattutto, l’inglese.
Finalmente, nel 1946, dopo cinque anni e mezzo di prigionia, scontata in gran parte nel Kenia, ed undici anni completi trascorsi in Africa, è libero di ritornare in patria. Prima di partire per l’Italia sente inderogabile il bisogno-dovere di salutare le persone con cui aveva instaurato legami profondi di sincera amicizia in tutti quegli anni. Va ad accommiatarsi anche dalla famiglia di un suo superiore cui è legato da vincoli di sincero, reciproco affetto. Dopo aver salutato, si allontana con andatura decisa per mascherare la commozione struggente che gli scuote l’anima, ma, come nelle favole più belle, si sente rincorrere da un concitato …“Un momento… aspettate un momento!”, pronunciato dalla moglie dell’ufficiale. Lui ritorna sui suoi passi mentre lei entra in casa. Ricompare un attimo dopo e gli consegna il diploma di maestro che egli aveva conseguito alcuni anni prima – e del quale ormai non aveva più traccia – e che ella gli aveva amorevolmente custodito per tutto il lungo periodo della sua prigionia.
È bastato questo barlume, acceso sul mesto grigiore delle incertezze, a riconciliarlo con la speranza e a consentirgli di depositare un velo pietoso e cauterizzante sul cumulo delle macerie, che aveva in fondo al cuore: i sogni, corteggiati nell’incanto giovanile, demoliti tutti insieme da beffardi eventi. Ritornava in Italia fortemente amareggiato ed estremamente deluso, ma , nel contempo, supportato da una cultura immensa e salda perché intessuta, trama dopo trama, ai telai del sacrificio e della costanza.
Si sentiva, comunque, a posto con la propria coscienza principalme
te per non aver derogato mai ai suoi principi morali, per non aver perso di vista nemmeno per un attimo i suoi ideali più nobili, per aver reso onore, in ogni circostanza, ai più alti e sacri valori dell’uomo.

E…via! Si ricomincia!

Dismessa la divisa militare sulle cui spallette luccicavano di freschezza immacolata le tre stellette d’oro di capitano, grazie al suo diploma, recuperato come avviene nei racconti popolati di fate, ed al concorso magistrale, superato con estrema facilità, inizia una nuova, straordinaria avventura in un campo operativo più consono a quelle sue aspirazioni cullate a lungo nel nucleo più intimo del cuore e vagheggiate con fiduciosa intensità dalla sua mente fin dall’età fanciulla: il mondo della scuola, il suo mondo!
Per prima cosa opera la scelta più importante e, come ripeterà sempre con commovente orgoglio, fino all’ultimo respiro, la più indovinata della sua vita, perchè conduce sull’altare la giovane maestra Elisabetta Senese, una donna che con la sua spontanea e aperta esuberanza, fondata su una bontà d’animo, una generosità e un affetto sconfinati e su un’intelligenza ed una perspicacia non comuni, vivrà per lui e a lui dedicherà ogni istante della propria vita.
Vien da sé, per converso, come recita un consolidato adagio popolare, che “da amore… amore nasce”.
Intanto il dott. Fortunato Perugini, durante il suo mandato (1948-1952) di primo sindaco eletto di Curinga nel secondo dopoguerra, gli affida la presidenza dell’E.C.A. (Ente Comunale di Assistenza) sia per le riconosciute capacità organizzative, sia per le note doti di integrità morale e lo spiccato senso di giustizia, sia perché, ammalato inguaribile, al par di lui, di viscerale filantropia e sia, infine, – diciamolo pure – perché la carica doveva essere ricoperta a titolo gratuito e nessuno era volontariamente disposto ad accollarsi grane … pure da “grana”.
Con il consueto zelo e senza perder tempo, si mette all’opera e, come per magia, da uno scaffale riesuma, dopo ben nove anni, un plico contenente le volontà testamentarie del Maggiore dei Carabinieri in pensione Sebastiano Perugino, espresse in data 7 giugno 1940, appena pochi mesi prima della sua morte, avvenuta il 30 novembre successivo. Nel testamento il Maggiore dichiarava la volontà di elargire all’ECA di Curinga parte dei suoi averi, consistenti principalmente in una villa signorile edificata nella zona alta del paese sul prolungamento di via S. Rocco, una cospicua somma in denaro e una consistente collezione numismatica di indiscusso pregio e valore. Tali beni dovevano essere destinati, come testualmente enunciato, alla costituzione di “un Ospizio di mendicità per i poveri più bisognosi del paese”. In subordine, se entro i termini perentori di dieci anni dalla data del testamento l’ospizio non fosse stato creato, tutti quei beni sarebbero stati acquisiti dalla Congregazione della Madonna del Carmelo di cui egli era stato confratello fin dalla nascita.
Dall’esame dei tempi, siamo ormai nel 1949, si evince chiaramente che sarebbe bastato appena un anno perché la volontà primaria del Benefattore venisse frustrata.
Edotto da alcune esperienze negative pregresse che lo avevano toccato da vicino, il neo presidente dell’Ente di assistenza comunale si adopera con lena incessante per bruciare le tappe in modo che la nobile intuizione del Maggiore si concretizzasse al più presto onde evitare che, per preconizzato oblio, si dissolvesse.
Confortato dal sostegno incondizionato del sindaco, dott. Fortunato Perugini, dal tesoriere comunale ed esecutore testamentario, sig. Pietro Gullo, e dal parere favorevole di altri consiglieri, tra cui i sigg. Vincenzo Michienzi, Pasquale Mazzotta e Giovambattista Gaudino, riesce a far deliberare l’istituzione dell’ Ospizio di Mendicità che sarà intitolato al nome del generoso donatore. Per rogare l’atto istitutivo della Casa di Assistenza, viene incaricato il notaio Luigi Cimino al quale, come compenso, viene corrisposta la somma di lire duecentomila interamente sborsata, con generosità, spontaneità e soddisfazione piena, dal professore Sgromo. È il 17 ottobre 1949. Poi, sollecitando la liberalità di amici facoltosi, quali il dott. Bernardo Bevilacqua, il possidente don Ercole Massara di Monterosso Calabro, il proprietario terriero don Carlo Crupi, il marchese Goffredo Stillitani, l’on. Antonio Capua (al quale in seguito il dott. Perugini conferirà, anche per altri meriti, la cittadinanza onoraria), e di tanti altri munifici concittadini, riesce a raccogliere i contributi necessari per avviare, in breve tempo, il funzionamento della nuova istituzione umanitaria senza intaccare il capitale iniziale e senza svilire la corposa collezione di monete antiche con una conversione in valuta corrente. Con l’aiuto di suor Assunta, riesce a mettersi in contatto con le suore Francescane del Signore di Caltanissetta, la cui Madre Generale Annina Ragusa, il primo febbraio 1952, dichiara la sua disponibilità ad accettare dall’ECA, rappresentata personalmente dal professore Sgromo, la convenzione mediante la quale le si
demandava l’incarico di assistenza agli ospiti della Casa “Maggiore Perugino”. Subito dopo egli avvierà la pratica per l’elevazione dell’Ospizio stesso ad Ente morale.
Inserita quest’altra importante tessera nella presente narrazione come doveroso inciso, notiamo che il Nostro, dopo aver insegnato per qualche tempo fuori Curinga, all’inizio dell’anno scolastico 1950/51 ritorna al paese natio giusto in tempo per ricevere il testimone, anche questa volta come un segno del destino, dal suo venerato maestro andato in pensione proprio l’anno prima. L’opera educativa che intraprende in favore dei figli degli amici e dei concittadini, assume il valore di una vera e propria benedizione divina per gli scolari, per le loro famiglie, per la comunità intera.
In primo luogo perché, per quanto riguarda la classe, egli si pone su una naturale linea di continuità con l’opera svolta dal suo indimenticato maestro, del quale aveva assorbito metodo e spirito operativo, per cui dagli scolari non viene avvertito nessun trauma né per la nuova figura di maestro, né per la novità dei programmi didattici (in vigore dal 1945) perché anch’egli non si adagia a seguire alla lettera le indicazioni programmatiche del ministero, ma si adopera con tutte le sue forze per sforarne il tetto al fine di fornire agli alunni l’opportunità di una preparazione quanto mai ampia e la migliore formazione possibile; era consapevole che le conoscenze scolastiche per la maggior parte di essi sarebbero rimaste quelle conseguite nel corso delle elementari e che se gli stessi avessero potuto contare su apprendimenti congrui e solidi avrebbero potuto affrontare con tranquillità le difficoltà che la vita riserva ad ognuno. In secondo luogo la sua stabile presenza in Curinga diventa garanzia di serenità per studenti e genitori in quanto essi avrebbero potuto fare affidamento su di lui, in caso di necessità, per ogni disciplina di studio. Le sue competenze infatti spaziano dalle lingue straniere (inglese, francese, tedesco, spagnolo, … arabo, perfino) alla matematica, dalla lingua e letteratura italiana alla fisica, dalla lingua e letteratura latina alla chimica, alla storia, alla filosofia, alla pedagogia , alla psicologia, alla didattica, alla …
Veramente unico, semplicemente superlativo!
Un luminoso esempio di cultore del sapere universale da additare alle future generazioni!
Inoltre, nel corso della sua attività di insegnante sta costantemente attento a scoprire, coltivare ed esaltare, con la stimolante severità di un amorevole padre, i talenti che si trovano in nuce nei fanciulli per assecondarli nella fioritura e, quando constata che alcuni scolari, pur essendo dotati di buone capacità di apprendimento, appartengono a famiglie che, per le disagiate condizioni economiche, non potrebbero affrontare le spese necessarie per la frequenza dei gradi successivi di scuola da parte dei figli, egli, non solo si impegna a farli studiare lo stesso, offrendosi a prepararli privatamente e in modo gratuito, ma anche a procurar loro i testi scolastici necessari: mira ad avviare, con sensibilità rara e religioso altruismo, il riscatto culturale e sociale dei ragazzi che si dibattono nelle stesse ristrettezze economiche che aveva sperimentato sulla sua pelle a quella stessa età. Le frotte di giovani studenti che affollano a turno e in numero sempre crescente il suo studio (e con essi i curinghesi tutti) cominciano così a “intraveder le stelle” dopo i lunghi secoli bui soggetti alle nefaste tenebre dall’ignoranza.
Ma non è mai soddisfatto completamente.
Ricordo, mentre seguiva orgoglioso le giovani promesse che frequentavano le sue lezioni, di averlo sentito spesso mormorare sommessamente con cruccio: “Anche Antonio…, Vincenzo…, Domenico…, Francesco … erano bravi, capaci, intelligenti e avrebbero potuto . Peccato! È veramente un peccato che i genitori non mi abbiano ascoltato e non abbiano permesso loro di studiare!“
Ad ogni modo, i suoi alunni cominciano ad invadere progressivamente le scuole medie e le superiori dei centri vicini, dimostrando di possedere veramente una marcia in più rispetto agli altri studenti ed egli può essere tranquillamente considerato il maggiore artefice dell’esplosione culturale della comunità curinghese.
Per un riconoscimento ufficiale della sua cultura si era intanto iscritto alla celebre Università Orientale di Napoli e nel 1952 si laurea in Lingue e, principalmente, in Lingua e Letteratura Inglese, discutendo, rigorosamente in inglese, la tesi su Thomas Hardy preparata con scrupolosa dedizione per tutta la durata dell’estate di quell’anno. Resta tuttavia molto deluso ed avvilito perché i relatori non gli consentono di esporre in maniera esaustiva gli argomenti della tesi, con pretestuose interruzioni miranti a frenarne lo slancio appassionato e profondo nelle sue fervide ed elevate disquisizioni sul romanziere e poeta inglese.
Ma egli, di certo, non appartiene alla categoria di quelli che gettano la spugna alle prime difficoltà. Nonostante qualche comprensibile, temporaneo scoramento, come ha combattuto finora combatterà per tutta la vita con indomita forza d’animo e coraggio leonino nell’eroico tentativo di confutare le pessimistiche conclusioni filosofiche dei tanti poeti e pensatori che hanno interessato i suoi studi, rivelandosi in ogni circostanza eloquente espressione dell’aspetto migliore dell’essere uomini.
Risale agli anni immediatamente successivi al conseguimento della laurea la sua collaborazione a “Calabria Letteraria”, la rivista culturale fondata dal prof. Emilio Frangella nel 1952, su cui appariranno alcuni interessanti articoli di storia locale, e al quotidiano “Il Tempo” di Roma.
Si iscrive poi all’Università di Palermo per esaudire (con un’intuizione a cui oggi, alla luce della multiculturalità che sta maturando nel nostro paese, possiamo attribuire senz’altro crismi di profetica lungimiranza) l’aspirazione della vita: conseguire la laurea in Arabo. Ma, non essendogli stati riconosciuti in questa sede gli esami di Lingua Inglese, nonostante avesse esibito la relativa laurea, sia per questa nuova cocente delusione sia per accondiscendere alle attese dell’adorata moglie che richiedeva il suo imprescindibile apporto nell’educazione dei due figlioletti, Tino e Lello, nati nel frattempo, decide di abbandonare l’idea e si iscrive in Vigilanza e Didattica al Magistero di Messina, come, in alternativa, gli propone lei, evidenziatrice dolce e premurosa delle sue più recondite aspirazioni, animatrice limpida e squillante dei suoi più intimi pensieri.
Conseguito con soddisfazione il diploma in Vigilanza e Didattica, esordisce nella carriera direttiva dapprima come incaricato e, superato il relativo concorso, classificandosi ai primissimi posti della graduatoria, a livello nazionale, come Direttore di ruolo, inizialmente nel Circolo didattico di Gizzeria , d’onde si trasferirà al II Circolo di Sambiase e poi al II Circolo di Lamezia Terme – Nicastro dove opererà fino all’età della pensione.
Per alleviare i disagi ai figli iscritti agli Istituti Superiori della Città della Piana, per la comodità di essere più vicino al posto di lavoro e per non derogare al principio della massima efficienza nell’esercizio della professione, assume la sofferta decisione di trasferirsi a Nicastro.
Comincia, ancora una volta, un nuovo ciclo della sua vita, ma la sua signorilità, la sua umanità e tutte la altre nobili prerogative di cui è ricco, restano immutate.
Anche in quest’altra dimensione del suo magistero cerca, in ogni circostanza, di mettere in luce i pregi dei suoi insegnanti e la naturale gratificazione che riserva loro diventa un propellente magico che spinge verso la perfezione l’opera didattico – educativa di tutti, anche e soprattutto, di quei docenti meno motivati per natura, accendendo in ciascuno di essi un’inesauribile carica di stima, di ammirazione, di affetto e di riconoscenza che rimarrà sempre viva ed indelebile nel tempo.
La fonte del suo donare non si affievolisce neanche ora, anzi aumenta la portata della profusione perché accorrono ad attingervi linfa per la loro professione pure i lametini, non solo i maestri del paese d’origine.
In occasione dei concorsi magistrali i Curinghesi principalmente si affid
no a lui per la preparazione e mentre per altri direttori scoccano le stagioni delle pregiate vendemmie d’annata, per lui iniziano i periodi della semina, coronata dalla gratificante soddisfazione di aver contribuito anche col cuore alla sistemazione di tanti giovani maestri: sì, con tutto il suo cuore!
La sua vita ora sembra speditamente incanalata tra spalliere di fiori che sbocciano sui prosperosi sentieri percorsi dai figli e i cui petali, accarezzando la sua mente, ne profumano di gioia i pensieri.
Non immagina, non può assolutamente immaginare i
due fendenti, e la loro spietata violenza, che gli saranno ancora riservati: la tragica, repentina scomparsa in un incidente aereo del figlio Tino con la fidanzata e quella un po’ più lenta, ma sempre efferata e inesorabile, della nuora Rosilde. E tutte due le volte si dovrà chinare per recuperare i frammenti della forza di vivere dai fondali della disperazione. Lo soccorreranno, prima, la nascita del nipotino Vito che rinnoverà, nel nome e nelle premesse, lo zio, e che, con la carezza balsamica della sua presenza, lenirà i bruciori dell’anima, e l’entrata in famiglia, poi, della nuova nuora, che riuscirà a colmare il vuoto lasciato da Rosilde. Al di sopra di queste due suture risanatrici si ergerà, come sempre, la sublime consorte che, per amor del marito, assumerà dimensioni titaniche nel ricomporre a grano a grano la polvere del suo spirito, riconquistato puntualmente dopo ogni caduta, con vigorosa fermezza esaltata dalla biunivoca corrispondenza del vivere insieme, in perfetta sintonia, in simbiosi assoluta.
E non si può sottacere che anch’ella è aggrappata alla stessa barca di dolore!
Negli ultimi tempi, ormai in pensione, sostenuto sempre amorevolmente dalla sua Bettina, alquanto rappacificato con la vita, si può gustare le gioie di cui lo ripagano i diletti nipoti per il loro procedere sicuro e proficuo sulle orme dei figli.
Si sta predisponendo a vivere intensamente il primo importante traguardo della vita del nipote primogenito Vito, la conquista della laurea, quando il suo cuore cede. Se ne va abbandonandosi, pago, tra le braccia amorevoli della moglie e in quelle infinite del figlio, accorso, per certo, dall’Alto.
Se ne va serenamente e il supremo esalar del respiro avrà senz’altro dissolto ogni traccia di rimpianto. Di quell’unico rimpianto, di cui si crucciava spesso negli ultimi tempi, quando ancora valutava l’ultimo atto della sua esistenza con la visione finita di essere mortale: il distacco dall’impareggiabile compagna della sua vita. Rimpianto che, ripeteva, sentiva alleviato alquanto dalla consolazione di saperla forte e battagliera in nome suo, e, come non mai stracolma di intime e nobili risorse che si effondono in ogni direzione, intrise sempre di calda umanità. Rimpianto, diceva, mitigato ancora dalla consapevolezza di saperla circondata da affetti limpidi, saldi, completi in ogni basilare componente.
È il 17 gennaio 2004.
Sono trascorsi appena poco più di cinque anni da allora e sembra un’eternità, tanto immenso è il vuoto che avvertiamo intorno a noi!
È trascorso più di un lustro da quel triste giorno e sembra ieri, tanto è viva la sua presenza dentro di noi!
E, perciò, non c’è stato alcun distacco!
Per la perfezione della dimensione eterna acquisita egli è in ogni istante vicino a tutti e a ciascuno dei suoi cari. Di ognuno, di sicuro, segue, precede, affianca, vive senza soluzione di continuità, i gesti, gli atti, i pensieri, i palpiti del cuore.
Nessun rimpianto, dunque!
Da parte mia un grazie costante ed infinito accompagnato da un atto di contrizione per tutto quanto di grande e di buono si era prefigurato per me e non è stato.
Dal profondo del cuore, Direttore Sgromo!
Dalle radici dell’anima, Maestro!
Era nato a Curinga il 23 marzo 1913.

Martino Granata

Dott. Sebastiano Serrao

Dott. Sebastiano Serrao

Scheda completa di: DOTT.  SEBASTIANO SERRAO

ALLA C I T T A’ Di GALATINA CHE APPREZZA CHI LAVORA NEL CAMPO DEL SAPERE QUESTO TRALCIO DI ALLORO CHE ALLE SUE AUREE DEVE LA VITA CANTO DELL’ANIMA CRISTIANA DEL P. SEBASTIANO SERRAO DELLE SCUOLE PIE SUO CITTADINO ONORARIO PER ESIMIE VIRTU’ PRESCELTO NELL’ALBA DELLA SUA RINASCITA OFFRE IL D O T T O R SEBASTIANO S E R R A O
Vissuto all’ombra del Santuario, nella radiosa Religione di Cristo, fu seguace delle orme del Calasanzio, ed attinse il sapere alla fonte di quelle Scuole Pie, che nei tempi critici del Risorgimento Italico, educavano il cuore dei giovani all’amore di Dio e della Patria» inculcando negli animi le più belle virtù morali e sociali, ed arricchendo le menti, con. tesori di dottrine.
Egli, seguendo il mandato, impostogli dall’Ordine, impartiva, con paterna cura, questa sana e meravigliosa educazione di mente e di cuore ad una larga schiera di discepoli, che occuparono poi tutti posti eminenti nell’agone sociale e letterario.
A 25 anni era Direttore Degli Istituti Classici e Tecnici di Galatina di Lecce, che lo prescelse per suo cittadino onorario, in merito ai pregi che adornavano la sua persona, sia nel campo del sapere, che in quello sociale.
Ma gli ingegni precoci ben presto si spengono ed egli pagò il tributo della vita alla Natura in verde età, vittima dell’immane lavoro, compiuto in breve tempo.I vincoli de  sangue che mi legano allo scrittore, mi vietano di far la sua biografia, per quel riserbo, doveroso, nel giudizio delle proprie cose. Ho creduto riportare, in questa prefazione, brevi cenni della sua attività nel campo sociale e scientifico, perché non restasse interamente sconosciuto al lettore.
Curinga Agosto 1933

Dott. Sebastiano Serrao

Farmacista Elisabetta Anania

Farmacista Elisabetta Anania

Scheda Completa di: Elisabetta Anania (Farmacista)


Elisabetta Anania nasce a Curinga il 9 ottobre 1906 frequenta le scuole superiori a Catanzaro conseguendo la Maturità Magistrale e successivamente quella del Liceo Scientifico:Iscrittasi alla facoltà di Chimica e Farmacia alla Regia Università di Napoli, si laurea nel 1932, iniziando ad esercitare la professione prima ad Olivati e poi a Curinga fino al 1973.E’ stata la prima donna laureata nel nostro comune e, probabilmente, anche la prima nella nostra provincia.
Ha svolto la sua professione con competenza maturità, senso del dovere, disponibilità verso tutti, in particolare nei confronti di coloro che apparivano più bisognosi di cura ed attenzione, per questi ultimi spesso si prodigava gratuitamente, offrendo la sua competenza medica e il suo sostegno umano e spirituale, fondato su una profonda fede ed ispirato ai principi francescani, tanto che il suo motto era ” dum tempus habemus operemur bonum” “finchè abbiamo tempo opereremo il bene”
Muore a Curinga il 4 aprile 1972
Dott.ssa Elisabetta Anania

Farmacista

Maestro Francesco Currado

Francesco Currado

Scheda Completa di: PROF. FRANCESCO CURRADO


Nasce a Curinga il 12 aprile 1884 (Sabato Santo, come lui stesso ci teneva a precisare) da Currado Giovanni e Michienzi Rosa.
La sua è una famiglia di proprietari terrieri e il padre svolge anche l’attività di calzolaio. E’ il secondo di otto figli, di cui quattro maschi e quattro femmine. Frequenta la scuola, ma la sua sete di sapere non viene appagata.
Appena finita la scuola aiuta la famiglia nel lavoro dei campi (vigneti, uliveti, orto) ed impara il mestiere presso la bottega del padre. Contemporaneamente, senza che i familiari ne fossero a conoscenza, frequenta le lezioni di musica. La famiglia lo scopre soltanto con la sua prima “uscita” quale “musicante” nella Banda cittadina. Il desiderio di apprendere lo coltiva con le lettere e, non bastandogli ciò, ad un amico propone l’insegnamento della musica in cambio di ulteriori istruzioni, a livello ginnasiale. Anche i fratelli suoneranno uno strumento nella stessa banda. Adempie gli obblighi di leva nella città di Novara e nella banda militare. Ritornato a Curinga dal servizio militare riprende le sue occupazioni e con maggiore interesse la musica. All’epoca la banda curinghese era molto apprezzata anche nei comuni del vibonese e, non essendoci mezzi per gli spostamenti, si recavano a piedi e si servivano di un carro solo per il trasporto degli strumenti. Il viaggio era lungo e, per passare il tempo, il Maestro raccontava la trama di un’opera. Nel 1914 decide, come tante altre persone, di emigrare negli Stati Uniti d’America per portare la sua passione per la musica anche all’estero ed il 19 luglio si imbarca a Napoli. Arrivato in America, viene accolto dalla comunità Italiana, che lo aiuta presentandolo alle varie famiglie interessate all’insegnamento della musica ai propri figli. Svolge il suo lavoro in molti stati e fonda delle bande cittadine. Nel contempo, cerca di migliorare le sue conoscenze della lingua, si iscrive ad un corpo di armonia presso l’Università di Chicago. Nel 1923 contrae matrimonio con un’Italo-americana. Il 24 luglio 1925, a conclusione del corso universitario, consegue il Diploma di Armonia. Nel 1928 nasce la figlia Ester. Continua l’insegnamento della musica a privati (pianoforte, legni, ottoni ed altri strumenti), ma rinuncia all’insegnamento propostogli presso l’Università in quanto gli viene chiesto di acquistare la cittadinanza americana, fino alla grande crisi del 1929. A seguito la crisi inizia l’attività di calzolaio ortopedico e l’insegnamento e l’insegnamento della musica viene relegato ad attività marginale. Segue, con grande affetto, l’educazione della figlia, che frequenta con molto profitto, compresa l’Università, dove le viene chiesto, dopo il primo corso di laurea, in sociologia, di fare l’assistente (attuale ricercatore). Durante la seconda guerra mondiale soffre molto per la situazione che si è  enuta a creare in Italia e per l’interruzione di tutte le comunicazioni. Nell’immediato dopoguerra comunica l’intenzione, sempre avuta, di venire in Italia e,  probabilmente, di rimanervi, ma tale desiderio non è stato mai attuato.Successivamente , dopo il suo pensionamento e la definizione degli affari, decide di rientrare in Italia ed il 19 luglio 1960 si imbarca sul Vulcania, che lo porta alla sua amata Curinga. Il 1° agosto 1960, finalmente, a Curinga dopo quarantasei anni di assenza per ritrovare l’affetto dei suoi parenti e trova un ambiente totalmente diverso da quello che aveva lasciato. Nel suo soggiorno a Curinga amava la vita semplice, serena e salutare, con dieta rigorosa e lunghe camminate.Conclude la sua vita l’11 dicembre 1971 nella sua abitazione di C.so Garibaldi.

Mastro Giovambattista Vono

Giovambattista Vono

Scheda completa di: GIOVAN BATTISTA VONO

GIOVAN BATTISTA VONO Di modesta famiglia curinghese, nacque il 12 novembre 1898.
Crebbe allegro, vivace fra i giochi spensierati dei coetanei.Insofferente delle costrizioni, diligente a suo modo nel seguire i  udi menti del sapere presso le scuole del paese, fu avviato anche, avendo dimostrato ingegno a-perto e propensione agli studi, a qualche corso supplementare di lezioni. Ma proprio quando ormai l’inclinazione diveniva, o stava per divenire assuefazione, quando già egli prendeva a gustare il piacere della conoscenza, per le precarie condizioni economiche della famiglia veniva avviato al lavoro di sartoria, per il quale non si riteneva adatto: spirito ribelle, non gli andava di star fermo, costretto al chiuso ed alla monotonia; soffriva per il fatto di essere inutilizzato, anche perché sentiva struggente il richiamo della vita all’aria aperta, al movimento, ai contatti umani. La costrizione esplodeva, nel grigiore e nella piattezza della vita militare, a Trapani, dove il suo spirito inquieto trovava la via d’uscita (e forse di riscatto) nel verseggiare, nel trasfondere sulla carta la piena dei sentimenti dell’età giovanile. E’ di quel periodo una serie di sonetti e di composizioni di vario metro che costituiscono il sostrato sentimental – romantico del giovane sognatore. Accanto a quella che può considerarsi — in queste prime esercitazioni — la « scoperta » del mondo e delle sue varietà, stanno talune immagini preziose, una certa problematicità del vivere.
Di ritorno al paese natale, fondò e diresse, con la collaborazione di amici e sodali, una compagnia filodrammatica — di certo sopravvenuta al segui
o delle indimenticabili esperienze della vita di soldato —, che ancor oggi quelli di solida età ricordano e rimpiangono. L’organizzazione di essa divenne il principale diversivo ( per quel che sì vedrà), la passione, l’attività pratica che lo tennero per molti anni impegnato.
Nel teatro, nella intelligente ricostruzione dei sentimenti e dei fatti della vita era la sua propensione. I meno giovani ricordano ancora le rappresentazioni di: «Le bocche inutili», di Annie Vivanti; «La patente », di Pirandello; «II coraggio », ed altre. Fra i drammi, si diedero « Senza dimani », di Nicola Misasi, « II Maledetto », dai Masnadieri, di Schiller; e poi un’opera liturgica, « La passione di Cristo », condotta sulla falsariga di un manoscritto di autore ignoto, forse proveniente da Nicotera.
Va notato che gli spettacoli, il cui ricavato si risolveva in beneficenza per i poveri bisognosi, si ripeterono con successo tra la popolazione del luogo e di altri centri viciniori.Tali manifestazioni (abbastanza « impegnate », per quei tempi) resero un ottimo servizio alle incolte e « chiuse » masse popolari, ma al contempo fruttarono soltanto momenti di gloria effimera al giovane intraprendente, il quale ebbe a vivere di solito negli stenti e nelle ristrettezze.Prima ancora di tali esperienze, poco più che ventenne, il Vono non volle adattarsi ad impigrire in un qualunque impiego pubblico, che pure gli veniva offerto, poiché per temperamento tendeva a non sciupare la sua libertà di pensiero e d’azione. In seguito, allorquando le dimensioni della realtà gli si mostrarono in un ben diverso aspetto e quando tristemente ebbe ad accorgersi che pure bisognava, con essa, « fare i conti », i possibili approdi impiegatizi gli vennero negati perché antifascista dichiarato, restio ad abbassare la testa, tribolato – orgoglioso. La mancata collocazione,lo scarso lavoro di sartoria, l’assillo di fare qualcosa di buono sollecitarono maggiormente in lui la molla dell’impegno poetico.A ciò si aggiungeva un amore folle, totalizzante, che ormai avvolgeva e sconvolgeva il giovane malinconioso e sognatore: una bella ragazza del paese, di venti anni più giovane, certa Bettina. In considerazione della differenza di età tra i due, i genitori di lei si opposero ad un eventuale legame che, comunque, ad onta di chiunque, sì mantenne saldo, integro, convulso, illuminante nello spirito e nella fantasia del nostro.Da questo diniego derivò, oltre al poetare appassionato, un mutamento nella vita di lui che, estroverso ed affabile con gli altri, si diede a far lo scapolo disordinato, randagio, immusonito con se stesso: appariva di frequente allegro e vivace con gli amici, ma nero e accigliato nel ritrovarsi, in solitudine, davanti al suo fantasma di donna, che era d’altronde la sua Laura, la sua unica ispiratrice.L’amata costituiva una presenza inseparabile (anche se platonica) durante le giornate noiose, come pure durante l’assiduo ritorcimento sui versi che man mano venivano fuori, prodotti in prevalenza da immediati impulsi e lacerazioni del cuore. Incoraggiamenti all’impegno non erano mancati.Sia pur attraverso « canali » minori, le piccole riviste e il mondo letterario paesan – regionale, il Vono otteneva qualche favorevole giudizio e qualche riconoscimento, non ultimo il premio di poesia dialettale « Città di Catanzaro », nel 1954. Innumerevoli furono le carte riempite o abbozzate di versi. Il rovello della composizione, della scrittura, dell’esperienza si faceva sempre più febbrile.Nel gran disordine, di vita e di scritti, era venuto su con una buona raccolta se, come risulta, a tarda età ha tentato di far pubblicare i vari momenti del suo testamento poetico, della travagliata vicenda sentimentale. Si era messo in contatto con la S.I.A., un’editrice di Bologna fallita qualche tempo dopo (alle soglie del ’60).La casa — come risulta da alcune lettere — richiedeva un contributo di lire 15.000 all’autore che, ridotto povero in canna, non potè disporre della somma e non ne fece niente (Presso la stessa editrice andò smarrito il manoscritto originale).Fallita l’ultima grande illusione, il vecchio « zia Titta », come affettuosi lo chiamavano in paese, si ridusse a vivere, amareggiato, in una costante solitudine.A rimetterlo in sesto non potevano bastare, ormai, le attenzioni dei familiari e dei nipoti, cui era molto legato. Di lì a poco, a colmare la misura, superati gli anni della maturità, sopravvennero gli acciacchi e le sofferenze. E in breve immusoniva dinanzi al franare dell’esistenza stessa, che riteneva ormai vuota e insignificante.Di ritorno da una lunga degenza in ospedale, ancora infermo morì, improvvisamente, il 2 agosto 1971. Tante sue carte manoscritte, sparpagliate di qua e di là per la casa, andarono disperse per incuria e per ignoranza.l nipote Giuseppe Vono, geloso custode di tanti di quei lavori, esprimiamo, anche a nome dei lettori, un vivo ringraziamento: per merito suo è possibile offrire alla conoscenza alcune pagine inedite del patrimonio culturale e letterario calabrese.

Mastro Giuseppe Vono

Giuseppe Vono

GIUSEPPE VONO

Nacque anche lui a Curinga il 4 gennaio 1891.

Apprese i rudimenti del sapere alla scuola elementare del paese, che ancor ragazzo lasciò per frequentare la bottega del padre sarto. In breve divenne abile nel mestiere facendosi notare per la bravura nella esecuzione dei lavori.Che fosse sarto di valore l’attestano medaglie e diplomi conseguiti più volte al concorso bandito dalla rivista “Moda maschile”. Fu sostanzialmente un ingegnoso autodidatta che da solo andava scucendo i modelli e le confezioni che gli capitavano sottomano per apprendere il criterio e sperimentarlo alla perfezione.
Ma con il mestiere andò incontro a momenti di scarsa richiesta e di inattività coatta.Ancor giovinetto, nel 1905, esercitando la sua arguzia nel gioco delle rime, componeva qualche poesia caratterizzata particolarmente da pienezza sentimentale, da accostamenti forzati, da ragionare retorico, da sentenziosità.La vera produzione vien fuori nel corso degli anni 1929-30 e seguenti, con intervalli, fino agli anni ’60. Abbondante e varia ma di scarso valore risulta la rimeria del periodo militare, che il nostro trascorse a Benevento.
Ritornato in paese, partecipò alla lotta politica militando fin dal 1919 nelle file del partito socialista. Fece parte dell’ala turatiana, idealista – umanitario – radicale.In una comunità prettamente agricola in cui emergevano appena pochi professionisti (impiegati), autodidatti, durante il periodo pre – e fascista la vita di pensiero del paese si conduceva con scambi fra “intellettuali”, i quali costituivano qualcosa di simile ad un cenacolo culturale: nel negozio di tessuti di Bruno Sgromo. Ebbene, col passare del tempo il sodalizio dava buoni frutti mentre la frequentazione favoriva gli scambi e gli arricchimenti di natura letteraria in quelle fervide menti.
Intanto, nel maggio 1922 sposò Maria Burggina, figlia di un piccolo proprietario di terre; ne ebbe nove figli, quattro dei quali morti in tenera età. I nomi di essi, datala devozione ai grandi della letteratura, richiamano quelli di Parini (Giuseppe), dell’Alighieri (Dante), di Saba (Umberto,) dell’Alfieri (Vittorio), del Manzoni (Alessandro).
Oltre che, in precedenza, sulla Gazzetta di Benevento, andava pubblicando sue poesie su La voce dei Calabresi di Buenos Ayres, e a volte anche per radio, sempre in Argentina. I rapporti con paesani emigrati in quella nazione divennero stretti, tanto che con il loro contributo e con la solidarietà degli amici e degli estimatori si raccolsero, in anni in cui il capitale, in mano a pochi privilegiati, non circolava tra il basso popolo, mille lire, con la qual somma fu realizzata una biblioteca pubblica. Invero il podestà del tempo tentava di scoraggiare l’iniziativa proprio perché lui stesso, suo malgrado, sarebbe venuto a trovarsi presidente di una istituzione di pretta marca antifascista; ma si superò l’ostacolo facilmente, poiché fu delegata a presiedere altra persona.Da socialista, egli tenne varie volte discorsi a sfondo sociale, malvisto dalle autorità del tempo e dagli uomini di mente retriva. Anche per questo, in seguito a un certo subbuglio subì, insieme ad altri, un processo in cui gli fu comminato un mese di carcere. Ecco cosa era avvenuto in quel lontano 1921. Il 2 novembre, solenne ricorrenza, si commemoravano i defunti con cerimonia ufficiale.
Accanto a questa, si tenne una manifestazione parallela, ad opera di dissenzienti, con bandiere rosse, appartati rispetto alle “autorità” : fatto, questo, che subito non andò a genio ai corrugati amministratori. Dopo una breve mischia e un principio di alterco, per fortuna senza conseguenze, dinanzi al cimitero, i composti “manifestanti” furono fermati e denunciati.
Al processo che ne seguì parecchi cittadini furono condannati a brevi pene detentive, poco dopo annullate da regolare proscioglimento.
Altra futile vicenda giudiziaria si ebbe verso gli anni ’30-31. La vita del paese si animava con le squadre sportive di calcio (era negli intenti del governo di allora incrementare le gare sportive e sollecitare lo spirito di agonismo nei giovani e nei meno giovani per nascondere i reali problemi sociali).
Si tenevano frequenti incontri sfida con le squadre di paesi vicini. Il pubblico tifava a maggioranza per la seconda compagine calcistica, la quale non riusciva quasi mai ad imporsi e a vincere.
Or dunque, in quei giorni era apparso nella frzione ACCONIA un insolito manifesto murale su c
i tra l’altro si leggeva:
DOMANI TUTTI A CURIN A AD ASSALTARE L’ESATTORIA LE TASSE NON SI PAGANO ABBASSO MUSSOLINI AL SEGNALE DEGLI SPARI CONVENITE TUTTI IN PIAZZA!La cosa venne alleorecchie della forza pubblica, ed il maresciallo del tempo informò il comando legione carabinieri: mentre la popolazione nulla sapeva del manifesto. Ignorando del tutto la cosa, i curinghesi in massa si erano recati ad assistere alla partita. Verso la conclusione dell’incontro, caso volle che esultassero di gioia per la vittoria della seconda compagine. Uno sportivo fece scoppiare in aria un petardo (interpretato, dai militi, come “il segnale” del manifesto). Tornati in paese, si scese in corteo in piazza a festeggiare. Sennonché, nel passare davanti all’esattoria, i giovani si videro fermare dagli uomini in divisa senza un motivo plausibile.
Gli esponenti sportivi, indiziati dell’intenzionalità di un delitto — l’assalto all’esattoria — di cui nulla sapevano, furono cacciati in carcere. Nonostante l’intervento del segretario del fascio locale la cosa andò avanti, ed al processo si ebbero due condanne a sette mesi e numerose altre di un mese ciascuna.Altra notazione. Alla findella guerra, anche dopo l’armistizio di Cassibile i vecchi amministratori fascisti non accennavano a volersene andare. Per reagire a tale abuso continuato, il popolo il 18 ottobre incendiò la casa comunale.Abbiamo qui inserito alcuni avvenimenti — sia pur discontinui e sconnessi — perché in essi, oltre che nella piatta quotidianità, visse l’autore il quale, spirito mite ed equilibrato, nel corso di ribellioni e rigurgiti popolari e rivolte scioviniste o appena di contrasto e di ripicca (che sarebbe lungo elencare) cercava sempre di fare opera di persuasione nei confronti dei più esagitati e dei più disperati. Nelle condizioni miserevoli del tempo serpeggiavano lo scontento e il dissenso, l’orgoglio e la brama di libertà. Il nostro incarnava il tipico atteggiamento di prudenza e di attesa, di assuefazione, che fa prevalere la ragione quando le cose stanno per mettersi male (fra Tommaso Campanella in Calabria non fa scuola, rimane una singolare eccezione!).
Giuseppe Vono chiudeva la sua esistenza, compianto dai figli, da estimatori e amici, il 9 settembre 1975.

Maestra Giovanna Menniti

Maestra Giovanna Menniti

 Giovanna Minniti

(Pizzo Calabro, 1898 – Perugia, 1978)

 Storia di una maestra del ‘900

Giovanna Minniti, terza di undici figli, nasce a Pizzo Calabro il 26 giugno 1898, da Carlo Minniti di Siderno e da Pietra Vitale, nata a Sciacca. Il padre, Questore della Calabria viene trasferito per lavoro a Perugia e Giovanna segue la famiglia in questa nuova città; qui prosegue gli studi e consegue il diploma magistrale il 21 luglio 1921. Vincitrice di concorso, per la severità del padre deve rinunciare alla Cattedra da titolare per non trasferirsi in un’altra città, quindi inizia ad insegnare come supplente, a Perugia dal 1921 al 1927, anno in cui decide di lasciare la famiglia e di trasferirsi a Catanzaro, dove lavora come istitutrice in un convitto.

Nel 1928 inizia la carriera di maestra elementare in Acconia, con non pochi problemi; infatti si ammala di malaria e nonostante la guarigione il cuore ne rimane per sempre danneggiato. Insegna gratuitamente a molti adulti, contribuendo alla lotta all’analfabetismo. Vicina ai più poveri e bisognosi, aiuta con amore alunni e famiglie in difficoltà. Dal 1929 al 1930 diviene vigilatrice di colonie a Curinga dove insegnerà dal 1931 al 1963.

Sempre qui conosce e sposa Giovanbattista Lo Scerbo, proprietario terriero, da cui avrà tre figli: Rosina, Piera e Giuseppe.

Rosina vive a Lamezia, Piera vive a Perugia, Giuseppe, vissuto a Perugia, muore nel 1968.

Giovanna Minniti ha studiato in un periodo difficile, in cui la maggior parte delle donne non potevano studiare.

 Ha iniziato a lavorare contro il volere della famiglia, spinta dalla passione per l’insegnamento. Ha esercitato la sua professione di maestra qui, in Calabria; ha amato questa terra pur riconoscendone l’arretratezza e la mentalità chiusa a ogni innovazione. Non fu certo facile per lei, vissuta in una città come Perugia, trovarsi improvvisamente costretta, per poter lavorare, a vivere in un ambiente rurale, in una realtà economicamente e culturalmente depressa, come era al tempo del Fascismo la Piana di Sant’Eufemia e in particolare la zona di Acconia e Curinga.

 È stata punto di riferimento e guida per intere generazioni, esempio di come sia possibile non soccombere e non cedere alle difficoltà, sia di lavoro che familiari e come con l’impegno e la volontà si possano fronteggiare e superare ostacoli e pregiudizi senza mai perdere la propria dignità, la propria identità, essere donna nel significato vero della parola. Va in pensione all’età di sessantacinque anni. Muore a Perugia il 3 maggio 1978.

 Intervista a …

 La chiameremo Maestra Giovanna, così come forse i suoi alunni la chiamavano, vorremmo che lei ci raccontasse la sua storia e la interromperemo per rivolgerle qualche domanda, quando sarà il caso.«I miei alunni mi chiamavano Maestra Minniti per una forma di rispetto. Il nome non si usava. Sono nata a Pizzo Calabro nel 1898 il 26 giugno. Sono la terza di undici figli. A quei tempi le famiglie erano costituite da tanti figli, i quali, si diceva, erano benedizioni del Signore! Mio padre era Questore e dalla Calabria fu mandato a svolgere il suo lavoro a Perugia. Io ho vissuto lì da quando ero piccola. Lì ho studiato ed ho conseguito il diploma magistrale».

 Noi pensiamo che studiare e andare a scuola, anche per i tempi passati fosse naturale, così come lo è oggi, invece com’era?

 «Studiare non era una cosa semplice e naturale come oggi, soprattutto per una donna. Mio padre era un uomo molto severo, non ci proibì di studiare, ma per il lavoro fu diverso. Conseguito il diploma magistrale mi

preparai per il concorso che vinsi e finalmente divenni una maestra. Era il mio sogno, lo desideravo tanto, non fu una professione scelta come ripiego. La maestra era molto considerata nella società di allora e poi per me aveva un fascino particolare, stare con i bambini e insegnare loro tante cose era un lavoro che mi appassionava. I problemi cominciarono proprio quando vinsi il concorso. Mio padre non voleva che mi allontanassi dalla città in cui vivevo con tutta la mia famiglia e per questo motivo rimasi lì, facendo la supplente, perché per diventare titolare mi sarei dovuta spostare e in più, essendo una donna, era impensabile andare altrove e vivere da sola per lavorare. A un certo punto, dopo sei anni, capii che se volevo fare la maestra sarei dovuta andare lì dove era richiesto e contro il volere di mio padre, feci le domande fuori Perugia e mi chiamarono a Catanzaro come istitutrice in un convitto.

La lotta con mio padre fu molto dura, soffrii molto perché mi dispiaceva dare un dolore ai miei genitori, ma il desiderio di rendermi utile mi fece superare tutte le difficoltà e trovai il coraggio di partire».

 Dopo dove insegnò?

 «Proprio l’anno dopo ebbi la sede di Acconia. Era un piccolissimo villaggio, ai piedi di un paesello di poco più

grande, Curinga, nella Piana di Sant’Eufemia.

Come avrete studiato, la zona era malarica ed io mi ammalai di malaria proprio all’inizio della mia attività di insegnante. Mi sembrava che tutto andasse male, le febbri alte mi distruggevano, ero sola, stavo tanto male, ma ce la feci, superai la malattia, anche se il cuore restò danneggiato per il resto della mia vita. Ora, come saprete, la malaria in Italia non c’è più, esiste solo in alcune zone dell’Africa».

 Com’era la scuola dove ha insegnato all’inizio?

 «Non potete immaginare come si stava a scuola una volta. Le aule erano stanze di vecchie case, spesso pioveva dentro, non vi era alcun tipo di riscaldamento, i bambini non erano ben coperti d’inverno, a volte erano anche senza scarpe, la miseria era tanta. Non avevano libri e materiale, intendendo per materiale una

penna e un quaderno, la maestra però riusciva a trovare quanto serviva e riusciva a lavorare anche in quelle

condizioni. Inoltre, poiché non c’erano le aule e i maestri necessari, i ragazzi di tante classi si riunivano con

un’unica maestra, si chiamavano pluriclassi. Pensate come si poteva lavorare contemporaneamente con ragazzi delle cinque classi delle scuole elementari. È stato un lavoro molto duro…».

 Com’era considerata la maestra in quell’ambiente povero? La gente le era vicina?

 «La maestra era una consigliera per tutta la famiglia e in tutti i campi. La gente si fidava di me, mi era vicina,

mi davano quel poco che avevano, sentendosi onorati nel dare alla maestra anche un uovo. Ricordo il rispetto che c’era verso di me, gli uomini che venivano ad accompagnare i figli si toglievano il cappello e stavano chini sino all’uscita senza mai girare le spalle».

 Lei ha lavorato nel periodo del Fascismo, che diritti aveva la donna in quel periodo e come veniva considerata?

«La donna nel periodo del Fascismo aveva pochi diritti ed era poco considerata. Il suo ruolo era esclusivamente in famiglia, come donna di casa, senza un lavoro, sottoposta al marito, necessaria per procreare e creare le famiglie con tanti figli, almeno sette, cosi come voleva Mussolini. Molte donne, all’epoca, non studiavano, o al massimo andavano a scuola sino alla V elementare. Per motivi di sicurezza, essendoci la guerra, non si decideva facilmente di far studiare i figli, soprattutto le donne. La differenza tra l’uomo e la donna era molto evidente. La donna non poteva nemmeno votare, perché non era considerata capace di scegliere. Ricordo il 1946: il voto alle donne. Anche io votai per la prima volta, fu una vera conquista: eravamo riconosciute come esseri pensanti. Le prime leggi sul lavoro femminile risalgono al 1934 – 35. Poi nel 1971 si stabili l’astensione obbligatoria dal lavoro, ma nel Fascismo si doveva tornare al lavoro subito dopo il parto. Sapete che noi donne non ci perdiamo mai d’animo e anche allora ci ingegnavamo e non mi vergogno a dire che una signora mi portava i miei tre figli nascosti in coperte per poterli allattare. Passati i primi mesi, li ho tenuti a casa con l’aiuto dei familiari».

 Le famiglie erano così come sono oggi?

 «No, la famiglia era un grande gruppo . Spesso ci si sposava e si stava in casa con i genitori di uno dei due

sposi. Imparavamo a vivere insieme, a condividere cose e spazi. Oggi c’è molto individualismo, ognuno vuole stare da solo, per conto proprio, non si condivide con naturalezza e facilità, in questo eravamo più fortunati noi. Anche nella crescita dei figli c’era più collaborazione, c’erano tante persone che vivevano nella casa o che stavano saltuariamente in famiglia, c’era gente disposta ad aiutare per un piatto di minestra calda, per stare in casa vicino a un focolare acceso. Tutto questo è sparito».

 C’erano tante persone analfabete, ha qualche ricordo legato a ciò?

 «Proprio per quanto vi ho detto prima, per la guerra, per la povertà, c’era tanta gente adulta analfabeta.

Posso dire con soddisfazione di avere insegnato a leggere e a scrivere a molte persone, le quali pur senza aver conseguito alcun titolo di studio, hanno migliorato in qualche modo la loro vita. Soprattutto prima del mio matrimonio, ma anche dopo, all’imbrunire si formava davanti la mia casa una fila di persone, per lo più

uomini, che dopo aver lavorato venivano a casa mia per imparare a leggere e a scrivere. Non c’era ancora nemmeno la corrente e con un lume a petrolio, nella mia piccola stanza, aiutavo chi voleva imparare.

Ricordo che molti venivano direttamente dal lavoro dei campi. Ricordo i volti stanchi e bruciati dal sole, gli occhi assonnati, le mani ruvide e indurite dal lavoro, l’impresa di tenere la penna in mano, di scrivere prima in stampatello e poi in corsivo, i dettati, e poi la loro prima lettera era per me, per dirmi grazie!

Nel leggere ricordo lo sforzo nel pronunciare le prime sillabe e poi i suoni diventavano parole e le parole frasi e sapevano leggere! La gratitudine di quelle persone non mi ha mai abbandonato, la soddisfazione sui loro volti è stata per me una invisibile ma grandissima somma di danaro».

Ci racconti qualche aneddoto significativo che riguarda la sua attività di insegnante elementare.

 «Ho tanti ricordi nella mia mente, ma voglio raccontarvi soltanto due fatti significativi per me. Un episodio riguarda un ragazzo difficile e ribelle, soprannominato ‘u crivaru perché il padre faceva dei cestini, finita la scuola si mise in un grosso guaio ed andò in carcere. Dal carcere mi scriveva chiedendo perdono per quello che aveva fatto e io cercavo di incoraggiarlo e di fargli guardare con speranza al futuro. Appena uscì dal carcere venne a trovarmi e ricordo ancora il suo abbraccio e le sue lacrime sulle mie mani. Non mi aspettavo tanto, non pensavo che veramente sentisse il bisogno di chiedere perdono a me per quanto aveva commesso. Ne fui commossa e felice. Un altro episodio che ricordo riguarda un terribile incidente causato anche dalla miseria di allora. Le case erano molto piccole e molte persone vivevano in un’unica stanza con accanto una stalla. Una volta una bambina, mentre dormiva cadde dal letto e venne presa a morsi da un maiale, che stava appunto lì vicino. Si salvò, ma riportò diverse mutilazioni, la maggior parte alle mani. Si sentiva ed era diversa, per questo non riusciva a venire a scuola, la convinsi, e all’età di dodici anni iniziò a frequentare la prima classe. Non avendo tutte le dita della mano destra, trovò molta difficoltà, ma riuscì a scrivere, imparò a leggere e a stare senza vergogna con i compagni di classe. Il suo viso, pure deturpato, sembrava più bello e ricordo quanti baci mi dava per dimostrarmi la sua felicità. Ho saputo che ha avuto una vita difficile e ora è morta, il suo nome era Immacolata. Questo è l’ultimo ricordo, perché poi andai in pensione all’età di sessantacinque anni. Una vita per la scuola».

 Grazie, per quanto ci sta raccontando, ora vorremmo che lei ci lasciasse con un pensiero sul lavoro e sulla donna di ieri.

 «Voglio dirvi che ogni lavoro che in futuro svolgerete potrà essere bello e appassionante come il mio, se lo svolgerete con il cuore e non solo con la mente. In ogni lavoro considerate sempre gli altri, considerate chi avete di fronte, ogni lavoro è per gli altri, non per noi stessi. Non dimenticate le donne che vi hanno preceduto, che prima delle vostre mamme e di voi hanno lottato, sia in famiglia che nella società, pensate alle donne vissute sotto la dittatura, alle mamme che non hanno visto tornare i loro figli dal fronte, a quelle che non avevano notizie per mesi e anni, pensate quante donne non hanno avuto alcun riconoscimento, pur compiendo con coraggio il proprio mestiere. Pensate alle donne che non avevano niente o avevano poco, ma avevano tanto coraggio. Grazie a voi per avermi permesso di raccontare parte della mia storia».

 Testimonianza

 Sono stata invitata a tracciare un ritratto della maestra Giovanna Minniti, sono onorata, ma nello stesso tempo impacciata nell’esternare il profondo sentimento che mi lega a lei e che vorrei custodire nel mio cuore, come ho fatto fino ad ora. L’ho conosciuta fin da bambina, frequentavo la I elementare, non era la mia insegnante, ma ogni volta che la vedevo nasceva in me un profondo turbamento e pensavo: «Come vorrei essere una sua alunna!». Ogni mattina, puntuale, arrivava a scuola, elegante, austera e sobria nel portamento ma dolce e materna quando posava gli occhi per cercare tra i bambini qualcuno che avesse più bisogno.

 Era questa una sua caratteristica, l’attenzione verso i bisognosi, gli emarginati, i ragazzi in difficoltà familiari, economiche, e riusciva a penetrare nel cuore e ad aiutare lì dove c’era un bisogno di qualsiasi tipo. Teneva molto al proseguimento degli studi, aveva capito che con la cultura e lo studio si poteva cambiare in qualche modo le sorti di una popolazione e quando ci incontravamo, finita la scuola elementare, era premurosa con me e sempre mi chiedeva notizie sul mio andamento scolastico. Quando passavo sotto la sua casa, sollevando gli occhi la vedevo affacciata al balcone, spesso era intenta a curare le piante e mi chiedevo come mai una donna così austera potesse amare, curare e proteggere le piante. Il suo cuore, allora capii, era tenero come quando guardava i suoi scolari per scoprire i loro piccoli ma importanti problemi.

Divenni anch’io maestra, forse per seguire un esempio per me così importante, un modello quasi, e nei primi anni d’insegnamento mi capitò di supplirla una volta che aveva avuto problemi col cuore. Entrai nella sua classe impacciata, timorosa, emozionata, nell’aula aleggiavano i suoi insegnamenti e il suo spirito. Mi domandavo: «Sarò in grado di supplire una maestra così brava e preparata?». Avevo mille dubbi e timori, mi feci coraggio e andai a trovarla. Le comunicai ciò che avevo fatto e quanto intendevo fare. Anche in quella circostanza si distinse per gentilezza e finezza. Mi incoraggiò, mi disse che stavo lavorando bene, mi spronò ad essere sicura nell’andare avanti.

I suoi consigli, l’esempio di come essere un’insegnante attaccata alla scuola, sino a trascurare la propria salute, mi hanno accompagnato in tutta la mia carriera. A distanza di anni e con la maturità di oggi, posso ora dire con convinzione che era una donna completa, come è difficile essere, ottima madre, eccellente e sapiente maestra di scuola e di vita, amica sincera. Ho capito forse quale era il suo segreto: metteva impegno e serietà in tutto quello che faceva e per questo tutto quello che realizzava era perfetto. Non posso non ricordare le sue ricette gastronomiche, erano veramente di alta scuola di cucina. La sua vita non è stata facile. Trasferitasi al Sud dal Nord, si dovette adattare ad una realtà rurale, povera e arretrata. Si integrò e non fece mai pesare di essere una persona cresciuta e appartenuta a un’altra realtà. Anche in famiglia ebbe tanti problemi, eppure riuscì con la sua grande fede a superare tante e inenarrabili vicissitudini; quando, però, subì la perdita del figlio ancora giovane, la sua vita cambiò.

Il suo cuore, già ammalato in conseguenza della malaria, si indebolì ancora e la sua salute divenne più precaria. La Maestra Giovanna è morta a Perugia, lì dove aveva trascorso gli anni della sua giovinezza, riposa accanto al figlio, così come lei aveva voluto. Nel paese dove ha lavorato c’è tanta gente che si ricorda di lei con affetto, rispetto, tenerezza e che insieme, ancora una volta vorrebbe dirle grazie per aver dedicato parte della sua vita a educare, formare, istruire intere generazioni.

Elisabetta Fiocca

Maestro Pietro Giovanni Terranova

Prof. Pietro Giovanni Terranova

MAESTRO PIETRO GIOVANNI TERRANOVA

…“Era d’Estate e mio padre se ne andava

tra dolori e affanni.

Fu ‘solo’ un errore; amava la vita,

aveva trentott’anni.”

… Così un passaggio della breve elegia Stagioni (del dolore) della figlia Maria Francesca, inserita nella raccolta tutta palpiti “Mare d’inverno”, pubblicata nel 1999.

Sì, era d’estate e, precisamente, era l’11 luglio del 1956: una serena, calda, luminosa giornata improvvisamente oscurata dall’ombra d’infinita tristezza proiettata, nell’animo di tutti coloro che lo avevamo avuto come docente, dalla notizia della morte, prematura e difficile da accettare, del maestro Pietro Terranova. In chi lo aveva conosciuto e, soprattutto nei colleghi, negli amici e negli scolari, la sua scomparsa ha lasciato sconcerto indicibile e commozione profonda. Ricordo, come se fosse accaduto ieri, quando, a mio fratello Vincenzo che, tornato da Curinga, visibilmente scosso e con occhi lucidi, tutto d’un tratto, mi chiese: “Indovina chi è morto?”, io risposi senza esitazione, sulla spinta di uno strano presentimento, con il cuore in tumulto e con le lacrime che già mi velavano la vista: “Il maestro Terranova, don Pietro”. Egli annuì soltanto perché un nodo gli serrava la gola. Restammo entrambi in lacrime ed in silenzio per interminabili minuti, mentre il gorgoglio delle acque del vicino torrente assumeva prerogative di mesto sottofondo al nostro dolore e, nello stesso tempo, di cassa di risonanza della nostra intima costernazione. Poi ci lasciammo trascinare dall’onda dei ricordi e ripercorremmo, con concitati “Rammenti quando…” che ci rimandavamo l’un l’altro, i trascorsi scolastici, brevi ma intensi, che ci avevano accomunato al maestro. Parlammo anche dell’affabile accoglienza che aveva riservato a me che, seppure non iscritto, aveva accettato in classe elargendomi gli insegnamenti alla stregua degli alunni “regolari”. Ci soffermammo sull’atmosfera di serenità che si respirava nella sua classe, in un clima di fervida operosità, sulle nostre richieste di aiuto in situazioni di difficoltà mai disattese, sui suoi solleciti interventi, su quel senso di sicurezza che si sprigionava dalla sua figura carismatica e che cominciava a coagularsi in fondo al nostro animo

Un’altra stretta al cuore c’incalzò quando il pensiero si soffermò sul dramma che stava vivendo la famiglia, sullo strazio dei figli, sul fragore assordante d’un intero mondo crollato sui quindici anni, incompiuti ancora, di Antonio, l’amico e compagno di studi Totò, sullo smarrimento di Franco che aveva visto venir meno, con la tenerezza del padre, dell’educatore la fermezza e del maestro la saggezza, sulla disperazione di Maria Francesca, la tenera Mariuccia, che osservava incredula il tramonto della luce paterna nel lago del suo cuore all’alba del proprio percorso vitale, sull’angoscia ed il tormento dell’adorata moglie, donna Concettina, che si sentì invadere di buio l’anima e la mente dalla nebbia di un silenzio di pietra, immutabile e duro, stampato con una monotonia senza fine in ciascuna delle caselle che seguivano i mille interrogativi sul crudele, assurdo destino cui si era dovuto inchinare il giovane marito, sul vivo dolore del fratello Sandro che con lui aveva perduto insieme all’affetto, una guida ed un sostegno insostituibili, colui che lo aveva accudito fin da bambino, che lo aveva preso per mano, allevato e coccolato e, spesso, addormentato ai ricordi della mamma raccontati a ninna-nanna.

Poi riprendemmo le rievocazioni e ci soffermammo sulle sue particolari doti umane intrise di carità cristiana autentica, praticata con costanza e slancio, come dimostrano due esempi di cui eravamo venuti a conoscenza per la spontanea testimonianza dei diretti beneficiati: un ragazzino scalzo e intirizzito per il freddo che si vede consegnare da don Pietro un paio di scarpe nuove, fatte preparare per il figlio nell’imminenza delle feste natalizie, e un giovane malvestito ed infreddolito che si ritrova assestato sulle spalle un caldo cappotto che egli si era tolto di dosso senza esitazione alcuna. Per giorni e giorni la figura del maestro ha avuto il predominio nei pensieri e nei sentimenti nostri ed ogni qualvolta ci ritrovavamo insieme, io e mio fratello, riprendevamo a parlare di lui perché ciascuno di noi era rimasto come prigioniero delle spire di contrizione che ci attanagliavano e mente e cuore. Il dispiacere si intensificava quando andavamo in paese perché lungamente vi abbiamo notato la gente annichilita e come avvolta in un cupo e pesante alone di sgomento per l’inspiegabile, repentina dipartita di don Pietro.

Ricordo bene di essere stato regolarmente iscritto, in prima elementare, fra i suoi alunni e di aver seguito le sue lezioni, anche se per pochi mesi, poiché, ad un certo punto gli è subentrato un giovanissimo maestro, di prima nomina, l’insegnante Vincenzo Orlando, originario della Sicilia.

Questa sia pur breve esperienza di scolaro suo insieme alle pregresse frequentazioni della sua classe in età prescolare, di cui si è fatto cenno sopra, oltre ad avermi dato l’opportunità di apprezzarne le straordinarie doti di insegnante illuminato, attento e carico di un’ineffabile umanità che traspariva chiara dal suo atteggiamento paterno, nonostante l’austerità del suo ruolo, dalla dolcezza del suo sorriso, sempre adombrato – non posso dimenticarlo – da delicate sfumature d’una malcelata malinconia, che emergeva dal profondo del cuore e affondava le radici (mi è dato solo ora saperlo) nel dolore per l’amara perdita della giovane mamma proprio mentr’egli procedeva speditamente sul cruciale sentiero dell’adolescenza, nonostante l’importanza e l’asperità degli insegnamenti, mi abilita in certo qual modo, insieme alla sincera, affettuosa amicizia che mi ha legato e mi lega a tutti i suoi familiari, a scrivere queste brevi note su di lui per l’anelo desio, rimosse le opache squame del silenzio, di affidarle, discrete e lievi, alle speranze del futuro per fermarle tenacemente alle terse pareti del tempo e perpetuarne la memoria.

Nato a Curinga il 22 settembre 1917 da Pietro Giovanni e da Maria Francesca Bonacci, visse un’infanzia ed una fanciullezza serene anche se venate da soffuse striature di mestizia per la lontananza del padre, valente ebanista, emigrato, qualche anno dopo la fine della Grande Guerra, in America d’onde ritornerà a Curinga in seguito alla tremenda congiuntura del 1929 per sottrarsi agli effetti negativi della storica recessione economica che ha asfissiato finanziariamente gli Stati Uniti. Egli, con i risparmi di quei dieci anni di sacrifici, riuscì a costruire, in posizione panoramica, una bella casa, completa di laboratorio di falegnameria per la ripresa della sua attività di artigiano, allora molto ricercato per la preziosità dei lavori, eseguiti non solo con grande precisione ed eccezionale maestria corroborata da spiccato senso estetico, ma anche in tempi rapidi, grazie ai macchinari d’avanguardia portati dall’America.

Nella piana di Sant’ Eufemia fervevano in quel tempo i lavori di bonifica delle zone acquitrinose promossi dal governo fascista per acquistare le fertili terre alle colture e nello stesso tempo per debellare la malaria. Si realizzavano canali di scolo per il deflusso delle acque stagnanti, opere di colmatura delle zone depresse del terreno, argini e briglie per la sistemazione idraulica dei torrenti lungo il loro corso collinare e montano al fine di frenare l’eccezionale azione erosiva delle acque in piena e per prevenirne la tracimazione a valle, ponti per superare fiumi e canali in corrispondenza delle varie strade, ferrate, statali, provinciali, vicinali o interpoderali che fossero. Fu altresì rifondato, tra gli altri, l’allora cosiddetto Villaggio Agricolo di Acconia di Curinga, costituito dalle costruzioni, fontana compresa, prospicienti la piazza triangolare su cui si affaccia la chiesetta dedicata a San Giovanni Battista, inaugurato il 2 maggio 1931.

Per le acclarate competenze nella lavorazione del legno, ma soprattutto per le comprovate capacità organizzative del lavoro, egli fu assunto in qualità di “assistente”, vale a dire come pianificatore, guida e supervisore dei lavori della squadra degli artigiani e degli operai incaricati della costruzione di tutte le opere in legno quali impalcature, armature per le colate di calcestruzzo, forme per le sagomature delle opere d’arte, baracche per il pernottamento dei lavoratori e per la custodia dei materiali e delle attrezzature. Tale attività gli assicurava un’entrata regolare che, oltre a contribuire ad elevare il tenore di vita della famiglia, gli garantiva la disponibilità economica necessaria per mantenere agli studi i figli in maniera più che dignitosa.

Nonostante il suo rientro fosse stato funestato dalla morte della moglie, deceduta dopo aver dato alla luce, a distanza di quattordici anni dalla nascita del primogenito, il secondo ed ultimo figlio Sandro, egli fece riprendere gli studi a Pietro, che, ormai quindicenne, fu mandato a Salerno nel convitto, a quel tempo, ancora annesso all’istituto superiore “ Regio Istituto Magistrale” presso il quale, con eccellente profitto, soprattutto nelle materie scientifiche e grafico-pittoriche, conseguì nella sessione estiva dell’anno scolastico 1937/1938, sia la Maturità Magistrale sia uno specifico diploma in Geometria che lo abilitava ad eseguire progetti per la costruzione di edifici in muratura. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, il giovane maestro, dopo aver superato il corso per Allievi Ufficiali di Complemento, fu assegnato, con i gradi di sottotenente, al 24° Reggimento “Cravatte Azzurre” inviato in Jugoslavia.

Come ufficiale guidò il “14° Battaglione mortai d’assalto” partecipando, dall’autunno del 1941 all’8 settembre 1943, alle operazioni di guerra al confine tra Croazia e Slovenia, zona molto pericolosa per i continui assalti dei nemici. Si distinse per le doti di coraggio, per l’equilibrio nell’esercizio delle funzioni di comandante, per le straordinarie capacità diplomatiche messe in atto con l’obiettivo di mitigare gli orrori della guerra, addolcendo, con convincenti strategie, lo spirito bellicoso dei Croati e ottenendo così una tacita tregua.

Degna di nota la decisione assunta a far saltare in aria, con le dovute precauzioni per non arrecare danni alle persone, l’officina che un meccanico usava clandestinamente come base di rifornimento di armi agli Sloveni con l’eloquente rischio di compromettere la situazione di non belligeranza che si era implicitamente instaurata tra i contendenti schierati sugli opposti fronti. La perentoria risoluzione provocò una contegnosa reazione dell’uomo, subito tramutatasi in riconoscente gratitudine, avuta contezza dell’attenzione osservata perché non venisse coinvolto nella drastica distruzione dell’immobile.

Finita la guerra e superato il concorso magistrale, si dedicò all’insegnamento in cui profuse ogni energia con il trasporto e la coscienza dell’educatore esemplare e versatile qual era, animato dal religioso intento di accendere di luce e di colori il cielo dell’avvenire di ogni suo allievo. Per la particolare dolcezza del carattere, la mirabile pazienza, e l’eccezionale tenerezza che nutriva per i più piccoli, gli si demandava spesso di svolgere la sua azione didattica in favore degli alunni delle prime classi.

Ed era nient’affatto un’agevolazione ove si consideri l’esorbitante numero degli iscritti alla prima elementare che spesso oltrepassava le sessanta unità delle quali, in quinta, arrivavano meno della metà, computando coloro i quali venivano inglobati, lungo il percorso dei cinque anni, perché ripetenti. Seguire sessanta bambini, guidare la loro manina a tenere la matita o la penna, indirizzarli ad orientarsi sul foglio di quaderno, specialmente nei primi tempi, richiedeva spirito di sacrificio autentico e amore incondizionato per scolaretti insicuri, impacciati, timidi. Soprattutto perché, salvo rare eccezioni, gli alunni delle prime classi, fino all’età dell’obbligo scolastico, non avevano toccato né matite né penne né quaderni ché tutto questo materiale, se circolava in casa per la presenza di fratelli più grandi che andavano a scuola, era categoricamente tenuto fuori della portata dei piccoli non già per la salvaguardia della loro incolumità, giacché, abituati fin dai primi anni di vita a rendersi utili e ad aiutare i più grandi nelle varie attività, essi diventavano capaci di maneggiare, con le dovute precauzioni, coltelli od altri utensili dotati di lame affilate, attrezzi taglienti, oggetti vari acuminati, bensì perché non arrecassero essi stessi danni al materiale scolastico consumandolo, spezzandolo o rovinando la mina alla matita, il pennino alla penna. Perché, a quei tempi, – siamo negli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale – per la maggior parte delle famiglie comprare libri e materiale per la scuola spesso significava sacrificare parte dell’indispensabile per sopravvivere, non già il superfluo o il voluttuario.

Pertanto, per avviarli a padroneggiare matite, colori e penne spesso sfuggenti al controllo di “manine adulte”, non abituate ad usare oggetti sottili e leggeri, occorreva possedere una particolare sensibilità connaturata e nutrire una speciale predilezione per bambini di quella età spesso bloccati, disorientati ed oltremodo incerti e timorosi.

E don Pietro per bontà, nobiltà di cuore e delicatezza d’animo non era secondo a nessuno: si avvicinava agli scolaretti, oltre che con la premura di amorevole padre, con simpatia e benevolenza sì da guadagnarsi, con la magia di un rassicurante sorriso e con la suggestione della suadente parola, la loro fiducia che sollecitava le menti a schiudersi, assetate corolle, alla rorida luce del sapere. Dopo aver operato per qualche anno nelle scuole della vicina San Pietro a Maida, si trasferì nella natia Curinga dove attese anche a funzioni di maestro fiduciario, ruolo abbastanza impegnativo in considerazione dell’elevato numero dei plessi scolastici sparsi nel vasto territorio comunale, che si estende dai monti al mare, costellato di numerose borgate, a quei tempi ancora densamente popolate, disseminate qua e là, a distanze considerevoli dal centro, e del fatto che l’ufficio di Direzione Didattica era a Maida.

Diresse anche alcuni corsi serali di “Richiamo scolastico” per adulti, istituiti per coloro i quali erano interessati a verificare la loro preparazione di base al fine di integrarla e consolidarla in funzione dell’attività svolta, o per ampliare e approfondire la personale cultura.

Aiutava privatamente, soprattutto nello studio della matematica, disciplina in cui era particolarmente versato, molti giovani che desideravano proseguire gli studi, dedicandosi con passione al loro elevamento culturale senza chiedere mai alcun compenso.

La vita sembrava scorrere fluida sui binari di una intensa operosità per don Pietro che si godeva la serena famigliola intimamente soddisfatto per i successi scolastici dei figli maturati sotto la sua discreta, costante, vigile ed apparentemente distratta assistenza affinché ogni progresso avesse crismi di conquista personale. Era, la sua, una famiglia-modello cui si guardava, da parte della gente, come esempio da assimilare e da realizzare nella vita, come immagine da imprimere nella mente e nel cuore per conformarvi la propria. Ci si volgeva a quella casa come ad un’oasi ubertosa dove fiorivano gesti discreti, ma frequenti ed intensi, di solidarietà umana e sociale, un’oasi a cui si poteva accedere in qualsiasi momento per attingere consigli, per avere aiuto, per trovare conforto, per ricevere sostegno morale e materiale, per ottenere una guida concreta per lo studio, per il lavoro, per la vita… con fiducia e senza essere minimamente sfiorati dalla sensazione di venir delusi, di restare a mani vuote, o di tornarsene indietro senza sprazzi di luce nella mente, o con vuoto di consolazione il cuore.

Erano ancora tempi in cui il maestro era la persona colta più vicina alla gente, facilmente interpellabile per qualsiasi evenienza, in qualunque momento e in ogni dove, senza formalità alcuna e senza preavviso di sorta. Don Pietro aveva anche la preziosità di un carattere dolce e rassicurante, di un’affabilità unica che faceva sentire a proprio agio chiunque si avvicinasse a lui per presentare le proprie necessità, le proprie difficoltà, per chiedere lumi, indicazioni, suggerimenti, soluzioni. E le sue risposte erano immediate, concrete, riservate, irrorate di calda, partecipe umanità.

Nessuno poteva presagire il dramma che si sarebbe consumato in maniera repentina e irreparabile nel volgere di qualche mese, quando era nel pieno vigore degli anni: una malattia subdola ed inesorabile si è presentata con effetti letali così devastanti e veloci da lasciare attoniti tutti: familiari, amici, colleghi, alunni, conoscenti, la gente comune e principalmente i medici di Curinga che, tutti insieme, si sono prodigati e costantemente confrontati per addivenire ad una diagnosi precisa e univoca e ad una terapia mirata e risolutrice.

Ma il male è stato rapido e inesorabile e nulla si è potuto.

Con rammarico cocente e rimpianto infinito.

E quando egli, avendo letto sul viso dei medici, amici prima che dottori, l’espressione inequivocabile della loro impotenza, sente venir meno le forze, desidera soltanto inebriarsi del volto dei teneri figli, della sposa diletta: ad essi riserva i suoi più struggenti pensieri, i suoi più intensi e profondi palpiti d’amore a coronamento di un affetto incommensurabile e lungo tutta quanta una vita. E, sicuramente, ben oltre la vita.

Con l’ immagine dei propri cari negli occhi e i loro sospiri nell’anima, dimentico ormai dei patimenti del corpo, si solleva, purificato dalla sofferenza, lieve nel Cielo d’onde l’orizzonte più ampio gli permette di spiegare su di essi, senza confini, eterne e serene, le sue ali amorevoli e protettive. Un’onda di dispiacere a flusso continuo invade allora la mente di tutta la comunità e ristagna per tanto tempo ancora nel fondo di ciascun cuore intridendo di commozione pensieri e parole per tutta quell’estate per poi riacutizzarsi alla riapertura dell’anno scolastico quando gli allievi non hanno rivisto splendere nell’aula la luce del maestro Pietro Terranova ed i maestri quella sfolgorante e fraterna del collega nella Scuola.

L’angoscia indugerà a lungo nei meandri dell’anima dei familiari e degli amici, frenando il faticoso incedere lungo l’erto sentiero della rassegnazione.

Soltanto allorché le pennellate del tempo sono riuscite a posarsi sulle lacerazioni interiori lenendone gli spasmi con il loro flebile fruscio e i pensieri hanno avuto la forza di sfondare il muro del dolore per respirare i ricordi e concentrarsi sui periodi più significativi della sua vita, quando con la semplice presenza impreziosiva in tanti modi ogni ambiente in cui operava e l’esistenza stessa di chi gli stava intorno, sia pur per brevi momenti, i bagliori della consolazione si sono potuti insinuare nell’animo, e il cuore trovare conforto e ristoro.

La sua presenza-assenza, costantemente percepita e profondamente vissuta, non faceva altro che conferire sacralità ai gesti, agli atti, alle parole ed agli insegnamenti che hanno caratterizzato la sua essenza di padre, di sposo, di maestro, di uomo.

Ancora oggi, nonostante l’affannoso scorrere degli anni, quello smarrimento giovanile riaffiora spesso ineluttabilmente dalle radici dell’essere e si adagia, forse complici accondiscendenti noi stessi, sulle rive della nostra mente. Perché ogni qualvolta i pensieri, sorvolando le alterne vicende dell’esistenza, si posano sulle ormai remote stagioni color della speranza della nostra vita, vi percepiscono, definita, indelebile, l’ombra di tristezza scritta da un fato spietato in quell’amara estate del 1956.

Dai recessi dell’anima trasuda allora, puntuale, incontenibile, un senso di struggente scontento e d’indicibile malinconia e si condensa in una lacrima che, mesta e greve, pencola sospesa alquanto alle corde del cuore.

Come un tempo.

Scivola poi, silenziosa e penetrante, tra le trame della memoria e col suo calore accarezza e vivifica il caro ricordo del prof. Pietro Terranova che, primo, ha guidato dolcemente i miei passi e quelli di tanti altri bambini nell’arcano mondo della scuola e, dal profondo dell’anima, un grazie sboccia spontaneo, profumato di riconoscenza immensa.

E senza tempo.

Curinga, 21 aprile 2012.

Martino Granata

Ci è grato concludere questa doverosa rievocazione riportando il testo, composto dai familiari e dagli amici, del pro–memoria, corredato di fotografia, distribuito nella ricorrenza del trigesimo dalla sua morte, significativo compendio dei suoi programmi di vita, spietatamente interrotti nel periodo più fecondo, ed eloquente espressione dell’atmosfera di generale afflizione che si respirava in quei tristissimi giorni:

“Sei passato sulle strade del mondo

con tante illusioni nel cuore

e tanti sogni negli occhi profondi.

Ora che manca il tuo sorriso

ci circonda il vuoto triste

perché nessuno

nell’avventura terrena

fu più di te buono e onesto.

La tua memoria

sia guida ai tuoi bimbi

conforto ai tuoi cari

dolce rimpianto

di chi ha vissuto con te

nel tuo piccolo mondo

ed ha diviso con te

le tue grandi speranze”

I FIGLI – LA MOGLIE – I PARENTI – GLI AMICI