Maestra Giovanna Menniti

Maestra Giovanna Menniti

 Giovanna Minniti

(Pizzo Calabro, 1898 – Perugia, 1978)

 Storia di una maestra del ‘900

Giovanna Minniti, terza di undici figli, nasce a Pizzo Calabro il 26 giugno 1898, da Carlo Minniti di Siderno e da Pietra Vitale, nata a Sciacca. Il padre, Questore della Calabria viene trasferito per lavoro a Perugia e Giovanna segue la famiglia in questa nuova città; qui prosegue gli studi e consegue il diploma magistrale il 21 luglio 1921. Vincitrice di concorso, per la severità del padre deve rinunciare alla Cattedra da titolare per non trasferirsi in un’altra città, quindi inizia ad insegnare come supplente, a Perugia dal 1921 al 1927, anno in cui decide di lasciare la famiglia e di trasferirsi a Catanzaro, dove lavora come istitutrice in un convitto.

Nel 1928 inizia la carriera di maestra elementare in Acconia, con non pochi problemi; infatti si ammala di malaria e nonostante la guarigione il cuore ne rimane per sempre danneggiato. Insegna gratuitamente a molti adulti, contribuendo alla lotta all’analfabetismo. Vicina ai più poveri e bisognosi, aiuta con amore alunni e famiglie in difficoltà. Dal 1929 al 1930 diviene vigilatrice di colonie a Curinga dove insegnerà dal 1931 al 1963.

Sempre qui conosce e sposa Giovanbattista Lo Scerbo, proprietario terriero, da cui avrà tre figli: Rosina, Piera e Giuseppe.

Rosina vive a Lamezia, Piera vive a Perugia, Giuseppe, vissuto a Perugia, muore nel 1968.

Giovanna Minniti ha studiato in un periodo difficile, in cui la maggior parte delle donne non potevano studiare.

 Ha iniziato a lavorare contro il volere della famiglia, spinta dalla passione per l’insegnamento. Ha esercitato la sua professione di maestra qui, in Calabria; ha amato questa terra pur riconoscendone l’arretratezza e la mentalità chiusa a ogni innovazione. Non fu certo facile per lei, vissuta in una città come Perugia, trovarsi improvvisamente costretta, per poter lavorare, a vivere in un ambiente rurale, in una realtà economicamente e culturalmente depressa, come era al tempo del Fascismo la Piana di Sant’Eufemia e in particolare la zona di Acconia e Curinga.

 È stata punto di riferimento e guida per intere generazioni, esempio di come sia possibile non soccombere e non cedere alle difficoltà, sia di lavoro che familiari e come con l’impegno e la volontà si possano fronteggiare e superare ostacoli e pregiudizi senza mai perdere la propria dignità, la propria identità, essere donna nel significato vero della parola. Va in pensione all’età di sessantacinque anni. Muore a Perugia il 3 maggio 1978.

 Intervista a …

 La chiameremo Maestra Giovanna, così come forse i suoi alunni la chiamavano, vorremmo che lei ci raccontasse la sua storia e la interromperemo per rivolgerle qualche domanda, quando sarà il caso.«I miei alunni mi chiamavano Maestra Minniti per una forma di rispetto. Il nome non si usava. Sono nata a Pizzo Calabro nel 1898 il 26 giugno. Sono la terza di undici figli. A quei tempi le famiglie erano costituite da tanti figli, i quali, si diceva, erano benedizioni del Signore! Mio padre era Questore e dalla Calabria fu mandato a svolgere il suo lavoro a Perugia. Io ho vissuto lì da quando ero piccola. Lì ho studiato ed ho conseguito il diploma magistrale».

 Noi pensiamo che studiare e andare a scuola, anche per i tempi passati fosse naturale, così come lo è oggi, invece com’era?

 «Studiare non era una cosa semplice e naturale come oggi, soprattutto per una donna. Mio padre era un uomo molto severo, non ci proibì di studiare, ma per il lavoro fu diverso. Conseguito il diploma magistrale mi

preparai per il concorso che vinsi e finalmente divenni una maestra. Era il mio sogno, lo desideravo tanto, non fu una professione scelta come ripiego. La maestra era molto considerata nella società di allora e poi per me aveva un fascino particolare, stare con i bambini e insegnare loro tante cose era un lavoro che mi appassionava. I problemi cominciarono proprio quando vinsi il concorso. Mio padre non voleva che mi allontanassi dalla città in cui vivevo con tutta la mia famiglia e per questo motivo rimasi lì, facendo la supplente, perché per diventare titolare mi sarei dovuta spostare e in più, essendo una donna, era impensabile andare altrove e vivere da sola per lavorare. A un certo punto, dopo sei anni, capii che se volevo fare la maestra sarei dovuta andare lì dove era richiesto e contro il volere di mio padre, feci le domande fuori Perugia e mi chiamarono a Catanzaro come istitutrice in un convitto.

La lotta con mio padre fu molto dura, soffrii molto perché mi dispiaceva dare un dolore ai miei genitori, ma il desiderio di rendermi utile mi fece superare tutte le difficoltà e trovai il coraggio di partire».

 Dopo dove insegnò?

 «Proprio l’anno dopo ebbi la sede di Acconia. Era un piccolissimo villaggio, ai piedi di un paesello di poco più

grande, Curinga, nella Piana di Sant’Eufemia.

Come avrete studiato, la zona era malarica ed io mi ammalai di malaria proprio all’inizio della mia attività di insegnante. Mi sembrava che tutto andasse male, le febbri alte mi distruggevano, ero sola, stavo tanto male, ma ce la feci, superai la malattia, anche se il cuore restò danneggiato per il resto della mia vita. Ora, come saprete, la malaria in Italia non c’è più, esiste solo in alcune zone dell’Africa».

 Com’era la scuola dove ha insegnato all’inizio?

 «Non potete immaginare come si stava a scuola una volta. Le aule erano stanze di vecchie case, spesso pioveva dentro, non vi era alcun tipo di riscaldamento, i bambini non erano ben coperti d’inverno, a volte erano anche senza scarpe, la miseria era tanta. Non avevano libri e materiale, intendendo per materiale una

penna e un quaderno, la maestra però riusciva a trovare quanto serviva e riusciva a lavorare anche in quelle

condizioni. Inoltre, poiché non c’erano le aule e i maestri necessari, i ragazzi di tante classi si riunivano con

un’unica maestra, si chiamavano pluriclassi. Pensate come si poteva lavorare contemporaneamente con ragazzi delle cinque classi delle scuole elementari. È stato un lavoro molto duro…».

 Com’era considerata la maestra in quell’ambiente povero? La gente le era vicina?

 «La maestra era una consigliera per tutta la famiglia e in tutti i campi. La gente si fidava di me, mi era vicina,

mi davano quel poco che avevano, sentendosi onorati nel dare alla maestra anche un uovo. Ricordo il rispetto che c’era verso di me, gli uomini che venivano ad accompagnare i figli si toglievano il cappello e stavano chini sino all’uscita senza mai girare le spalle».

 Lei ha lavorato nel periodo del Fascismo, che diritti aveva la donna in quel periodo e come veniva considerata?

«La donna nel periodo del Fascismo aveva pochi diritti ed era poco considerata. Il suo ruolo era esclusivamente in famiglia, come donna di casa, senza un lavoro, sottoposta al marito, necessaria per procreare e creare le famiglie con tanti figli, almeno sette, cosi come voleva Mussolini. Molte donne, all’epoca, non studiavano, o al massimo andavano a scuola sino alla V elementare. Per motivi di sicurezza, essendoci la guerra, non si decideva facilmente di far studiare i figli, soprattutto le donne. La differenza tra l’uomo e la donna era molto evidente. La donna non poteva nemmeno votare, perché non era considerata capace di scegliere. Ricordo il 1946: il voto alle donne. Anche io votai per la prima volta, fu una vera conquista: eravamo riconosciute come esseri pensanti. Le prime leggi sul lavoro femminile risalgono al 1934 – 35. Poi nel 1971 si stabili l’astensione obbligatoria dal lavoro, ma nel Fascismo si doveva tornare al lavoro subito dopo il parto. Sapete che noi donne non ci perdiamo mai d’animo e anche allora ci ingegnavamo e non mi vergogno a dire che una signora mi portava i miei tre figli nascosti in coperte per poterli allattare. Passati i primi mesi, li ho tenuti a casa con l’aiuto dei familiari».

 Le famiglie erano così come sono oggi?

 «No, la famiglia era un grande gruppo . Spesso ci si sposava e si stava in casa con i genitori di uno dei due

sposi. Imparavamo a vivere insieme, a condividere cose e spazi. Oggi c’è molto individualismo, ognuno vuole stare da solo, per conto proprio, non si condivide con naturalezza e facilità, in questo eravamo più fortunati noi. Anche nella crescita dei figli c’era più collaborazione, c’erano tante persone che vivevano nella casa o che stavano saltuariamente in famiglia, c’era gente disposta ad aiutare per un piatto di minestra calda, per stare in casa vicino a un focolare acceso. Tutto questo è sparito».

 C’erano tante persone analfabete, ha qualche ricordo legato a ciò?

 «Proprio per quanto vi ho detto prima, per la guerra, per la povertà, c’era tanta gente adulta analfabeta.

Posso dire con soddisfazione di avere insegnato a leggere e a scrivere a molte persone, le quali pur senza aver conseguito alcun titolo di studio, hanno migliorato in qualche modo la loro vita. Soprattutto prima del mio matrimonio, ma anche dopo, all’imbrunire si formava davanti la mia casa una fila di persone, per lo più

uomini, che dopo aver lavorato venivano a casa mia per imparare a leggere e a scrivere. Non c’era ancora nemmeno la corrente e con un lume a petrolio, nella mia piccola stanza, aiutavo chi voleva imparare.

Ricordo che molti venivano direttamente dal lavoro dei campi. Ricordo i volti stanchi e bruciati dal sole, gli occhi assonnati, le mani ruvide e indurite dal lavoro, l’impresa di tenere la penna in mano, di scrivere prima in stampatello e poi in corsivo, i dettati, e poi la loro prima lettera era per me, per dirmi grazie!

Nel leggere ricordo lo sforzo nel pronunciare le prime sillabe e poi i suoni diventavano parole e le parole frasi e sapevano leggere! La gratitudine di quelle persone non mi ha mai abbandonato, la soddisfazione sui loro volti è stata per me una invisibile ma grandissima somma di danaro».

Ci racconti qualche aneddoto significativo che riguarda la sua attività di insegnante elementare.

 «Ho tanti ricordi nella mia mente, ma voglio raccontarvi soltanto due fatti significativi per me. Un episodio riguarda un ragazzo difficile e ribelle, soprannominato ‘u crivaru perché il padre faceva dei cestini, finita la scuola si mise in un grosso guaio ed andò in carcere. Dal carcere mi scriveva chiedendo perdono per quello che aveva fatto e io cercavo di incoraggiarlo e di fargli guardare con speranza al futuro. Appena uscì dal carcere venne a trovarmi e ricordo ancora il suo abbraccio e le sue lacrime sulle mie mani. Non mi aspettavo tanto, non pensavo che veramente sentisse il bisogno di chiedere perdono a me per quanto aveva commesso. Ne fui commossa e felice. Un altro episodio che ricordo riguarda un terribile incidente causato anche dalla miseria di allora. Le case erano molto piccole e molte persone vivevano in un’unica stanza con accanto una stalla. Una volta una bambina, mentre dormiva cadde dal letto e venne presa a morsi da un maiale, che stava appunto lì vicino. Si salvò, ma riportò diverse mutilazioni, la maggior parte alle mani. Si sentiva ed era diversa, per questo non riusciva a venire a scuola, la convinsi, e all’età di dodici anni iniziò a frequentare la prima classe. Non avendo tutte le dita della mano destra, trovò molta difficoltà, ma riuscì a scrivere, imparò a leggere e a stare senza vergogna con i compagni di classe. Il suo viso, pure deturpato, sembrava più bello e ricordo quanti baci mi dava per dimostrarmi la sua felicità. Ho saputo che ha avuto una vita difficile e ora è morta, il suo nome era Immacolata. Questo è l’ultimo ricordo, perché poi andai in pensione all’età di sessantacinque anni. Una vita per la scuola».

 Grazie, per quanto ci sta raccontando, ora vorremmo che lei ci lasciasse con un pensiero sul lavoro e sulla donna di ieri.

 «Voglio dirvi che ogni lavoro che in futuro svolgerete potrà essere bello e appassionante come il mio, se lo svolgerete con il cuore e non solo con la mente. In ogni lavoro considerate sempre gli altri, considerate chi avete di fronte, ogni lavoro è per gli altri, non per noi stessi. Non dimenticate le donne che vi hanno preceduto, che prima delle vostre mamme e di voi hanno lottato, sia in famiglia che nella società, pensate alle donne vissute sotto la dittatura, alle mamme che non hanno visto tornare i loro figli dal fronte, a quelle che non avevano notizie per mesi e anni, pensate quante donne non hanno avuto alcun riconoscimento, pur compiendo con coraggio il proprio mestiere. Pensate alle donne che non avevano niente o avevano poco, ma avevano tanto coraggio. Grazie a voi per avermi permesso di raccontare parte della mia storia».

 Testimonianza

 Sono stata invitata a tracciare un ritratto della maestra Giovanna Minniti, sono onorata, ma nello stesso tempo impacciata nell’esternare il profondo sentimento che mi lega a lei e che vorrei custodire nel mio cuore, come ho fatto fino ad ora. L’ho conosciuta fin da bambina, frequentavo la I elementare, non era la mia insegnante, ma ogni volta che la vedevo nasceva in me un profondo turbamento e pensavo: «Come vorrei essere una sua alunna!». Ogni mattina, puntuale, arrivava a scuola, elegante, austera e sobria nel portamento ma dolce e materna quando posava gli occhi per cercare tra i bambini qualcuno che avesse più bisogno.

 Era questa una sua caratteristica, l’attenzione verso i bisognosi, gli emarginati, i ragazzi in difficoltà familiari, economiche, e riusciva a penetrare nel cuore e ad aiutare lì dove c’era un bisogno di qualsiasi tipo. Teneva molto al proseguimento degli studi, aveva capito che con la cultura e lo studio si poteva cambiare in qualche modo le sorti di una popolazione e quando ci incontravamo, finita la scuola elementare, era premurosa con me e sempre mi chiedeva notizie sul mio andamento scolastico. Quando passavo sotto la sua casa, sollevando gli occhi la vedevo affacciata al balcone, spesso era intenta a curare le piante e mi chiedevo come mai una donna così austera potesse amare, curare e proteggere le piante. Il suo cuore, allora capii, era tenero come quando guardava i suoi scolari per scoprire i loro piccoli ma importanti problemi.

Divenni anch’io maestra, forse per seguire un esempio per me così importante, un modello quasi, e nei primi anni d’insegnamento mi capitò di supplirla una volta che aveva avuto problemi col cuore. Entrai nella sua classe impacciata, timorosa, emozionata, nell’aula aleggiavano i suoi insegnamenti e il suo spirito. Mi domandavo: «Sarò in grado di supplire una maestra così brava e preparata?». Avevo mille dubbi e timori, mi feci coraggio e andai a trovarla. Le comunicai ciò che avevo fatto e quanto intendevo fare. Anche in quella circostanza si distinse per gentilezza e finezza. Mi incoraggiò, mi disse che stavo lavorando bene, mi spronò ad essere sicura nell’andare avanti.

I suoi consigli, l’esempio di come essere un’insegnante attaccata alla scuola, sino a trascurare la propria salute, mi hanno accompagnato in tutta la mia carriera. A distanza di anni e con la maturità di oggi, posso ora dire con convinzione che era una donna completa, come è difficile essere, ottima madre, eccellente e sapiente maestra di scuola e di vita, amica sincera. Ho capito forse quale era il suo segreto: metteva impegno e serietà in tutto quello che faceva e per questo tutto quello che realizzava era perfetto. Non posso non ricordare le sue ricette gastronomiche, erano veramente di alta scuola di cucina. La sua vita non è stata facile. Trasferitasi al Sud dal Nord, si dovette adattare ad una realtà rurale, povera e arretrata. Si integrò e non fece mai pesare di essere una persona cresciuta e appartenuta a un’altra realtà. Anche in famiglia ebbe tanti problemi, eppure riuscì con la sua grande fede a superare tante e inenarrabili vicissitudini; quando, però, subì la perdita del figlio ancora giovane, la sua vita cambiò.

Il suo cuore, già ammalato in conseguenza della malaria, si indebolì ancora e la sua salute divenne più precaria. La Maestra Giovanna è morta a Perugia, lì dove aveva trascorso gli anni della sua giovinezza, riposa accanto al figlio, così come lei aveva voluto. Nel paese dove ha lavorato c’è tanta gente che si ricorda di lei con affetto, rispetto, tenerezza e che insieme, ancora una volta vorrebbe dirle grazie per aver dedicato parte della sua vita a educare, formare, istruire intere generazioni.

Elisabetta Fiocca