Prof. Pietro Giovanni Terranova
MAESTRO PIETRO GIOVANNI TERRANOVA
…“Era d’Estate e mio padre se ne andava
tra dolori e affanni.
Fu ‘solo’ un errore; amava la vita,
aveva trentott’anni.”
… Così un passaggio della breve elegia Stagioni (del dolore) della figlia Maria Francesca, inserita nella raccolta tutta palpiti “Mare d’inverno”, pubblicata nel 1999.
Sì, era d’estate e, precisamente, era l’11 luglio del 1956: una serena, calda, luminosa giornata improvvisamente oscurata dall’ombra d’infinita tristezza proiettata, nell’animo di tutti coloro che lo avevamo avuto come docente, dalla notizia della morte, prematura e difficile da accettare, del maestro Pietro Terranova. In chi lo aveva conosciuto e, soprattutto nei colleghi, negli amici e negli scolari, la sua scomparsa ha lasciato sconcerto indicibile e commozione profonda. Ricordo, come se fosse accaduto ieri, quando, a mio fratello Vincenzo che, tornato da Curinga, visibilmente scosso e con occhi lucidi, tutto d’un tratto, mi chiese: “Indovina chi è morto?”, io risposi senza esitazione, sulla spinta di uno strano presentimento, con il cuore in tumulto e con le lacrime che già mi velavano la vista: “Il maestro Terranova, don Pietro”. Egli annuì soltanto perché un nodo gli serrava la gola. Restammo entrambi in lacrime ed in silenzio per interminabili minuti, mentre il gorgoglio delle acque del vicino torrente assumeva prerogative di mesto sottofondo al nostro dolore e, nello stesso tempo, di cassa di risonanza della nostra intima costernazione. Poi ci lasciammo trascinare dall’onda dei ricordi e ripercorremmo, con concitati “Rammenti quando…” che ci rimandavamo l’un l’altro, i trascorsi scolastici, brevi ma intensi, che ci avevano accomunato al maestro. Parlammo anche dell’affabile accoglienza che aveva riservato a me che, seppure non iscritto, aveva accettato in classe elargendomi gli insegnamenti alla stregua degli alunni “regolari”. Ci soffermammo sull’atmosfera di serenità che si respirava nella sua classe, in un clima di fervida operosità, sulle nostre richieste di aiuto in situazioni di difficoltà mai disattese, sui suoi solleciti interventi, su quel senso di sicurezza che si sprigionava dalla sua figura carismatica e che cominciava a coagularsi in fondo al nostro animo
Un’altra stretta al cuore c’incalzò quando il pensiero si soffermò sul dramma che stava vivendo la famiglia, sullo strazio dei figli, sul fragore assordante d’un intero mondo crollato sui quindici anni, incompiuti ancora, di Antonio, l’amico e compagno di studi Totò, sullo smarrimento di Franco che aveva visto venir meno, con la tenerezza del padre, dell’educatore la fermezza e del maestro la saggezza, sulla disperazione di Maria Francesca, la tenera Mariuccia, che osservava incredula il tramonto della luce paterna nel lago del suo cuore all’alba del proprio percorso vitale, sull’angoscia ed il tormento dell’adorata moglie, donna Concettina, che si sentì invadere di buio l’anima e la mente dalla nebbia di un silenzio di pietra, immutabile e duro, stampato con una monotonia senza fine in ciascuna delle caselle che seguivano i mille interrogativi sul crudele, assurdo destino cui si era dovuto inchinare il giovane marito, sul vivo dolore del fratello Sandro che con lui aveva perduto insieme all’affetto, una guida ed un sostegno insostituibili, colui che lo aveva accudito fin da bambino, che lo aveva preso per mano, allevato e coccolato e, spesso, addormentato ai ricordi della mamma raccontati a ninna-nanna.
Poi riprendemmo le rievocazioni e ci soffermammo sulle sue particolari doti umane intrise di carità cristiana autentica, praticata con costanza e slancio, come dimostrano due esempi di cui eravamo venuti a conoscenza per la spontanea testimonianza dei diretti beneficiati: un ragazzino scalzo e intirizzito per il freddo che si vede consegnare da don Pietro un paio di scarpe nuove, fatte preparare per il figlio nell’imminenza delle feste natalizie, e un giovane malvestito ed infreddolito che si ritrova assestato sulle spalle un caldo cappotto che egli si era tolto di dosso senza esitazione alcuna. Per giorni e giorni la figura del maestro ha avuto il predominio nei pensieri e nei sentimenti nostri ed ogni qualvolta ci ritrovavamo insieme, io e mio fratello, riprendevamo a parlare di lui perché ciascuno di noi era rimasto come prigioniero delle spire di contrizione che ci attanagliavano e mente e cuore. Il dispiacere si intensificava quando andavamo in paese perché lungamente vi abbiamo notato la gente annichilita e come avvolta in un cupo e pesante alone di sgomento per l’inspiegabile, repentina dipartita di don Pietro.
Ricordo bene di essere stato regolarmente iscritto, in prima elementare, fra i suoi alunni e di aver seguito le sue lezioni, anche se per pochi mesi, poiché, ad un certo punto gli è subentrato un giovanissimo maestro, di prima nomina, l’insegnante Vincenzo Orlando, originario della Sicilia.
Questa sia pur breve esperienza di scolaro suo insieme alle pregresse frequentazioni della sua classe in età prescolare, di cui si è fatto cenno sopra, oltre ad avermi dato l’opportunità di apprezzarne le straordinarie doti di insegnante illuminato, attento e carico di un’ineffabile umanità che traspariva chiara dal suo atteggiamento paterno, nonostante l’austerità del suo ruolo, dalla dolcezza del suo sorriso, sempre adombrato – non posso dimenticarlo – da delicate sfumature d’una malcelata malinconia, che emergeva dal profondo del cuore e affondava le radici (mi è dato solo ora saperlo) nel dolore per l’amara perdita della giovane mamma proprio mentr’egli procedeva speditamente sul cruciale sentiero dell’adolescenza, nonostante l’importanza e l’asperità degli insegnamenti, mi abilita in certo qual modo, insieme alla sincera, affettuosa amicizia che mi ha legato e mi lega a tutti i suoi familiari, a scrivere queste brevi note su di lui per l’anelo desio, rimosse le opache squame del silenzio, di affidarle, discrete e lievi, alle speranze del futuro per fermarle tenacemente alle terse pareti del tempo e perpetuarne la memoria.
Nato a Curinga il 22 settembre 1917 da Pietro Giovanni e da Maria Francesca Bonacci, visse un’infanzia ed una fanciullezza serene anche se venate da soffuse striature di mestizia per la lontananza del padre, valente ebanista, emigrato, qualche anno dopo la fine della Grande Guerra, in America d’onde ritornerà a Curinga in seguito alla tremenda congiuntura del 1929 per sottrarsi agli effetti negativi della storica recessione economica che ha asfissiato finanziariamente gli Stati Uniti. Egli, con i risparmi di quei dieci anni di sacrifici, riuscì a costruire, in posizione panoramica, una bella casa, completa di laboratorio di falegnameria per la ripresa della sua attività di artigiano, allora molto ricercato per la preziosità dei lavori, eseguiti non solo con grande precisione ed eccezionale maestria corroborata da spiccato senso estetico, ma anche in tempi rapidi, grazie ai macchinari d’avanguardia portati dall’America.
Nella piana di Sant’ Eufemia fervevano in quel tempo i lavori di bonifica delle zone acquitrinose promossi dal governo fascista per acquistare le fertili terre alle colture e nello stesso tempo per debellare la malaria. Si realizzavano canali di scolo per il deflusso delle acque stagnanti, opere di colmatura delle zone depresse del terreno, argini e briglie per la sistemazione idraulica dei torrenti lungo il loro corso collinare e montano al fine di frenare l’eccezionale azione erosiva delle acque in piena e per prevenirne la tracimazione a valle, ponti per superare fiumi e canali in corrispondenza delle varie strade, ferrate, statali, provinciali, vicinali o interpoderali che fossero. Fu altresì rifondato, tra gli altri, l’allora cosiddetto Villaggio Agricolo di Acconia di Curinga, costituito dalle costruzioni, fontana compresa, prospicienti la piazza triangolare su cui si affaccia la chiesetta dedicata a San Giovanni Battista, inaugurato il 2 maggio 1931.
Per le acclarate competenze nella lavorazione del legno, ma soprattutto per le comprovate capacità organizzative del lavoro, egli fu assunto in qualità di “assistente”, vale a dire come pianificatore, guida e supervisore dei lavori della squadra degli artigiani e degli operai incaricati della costruzione di tutte le opere in legno quali impalcature, armature per le colate di calcestruzzo, forme per le sagomature delle opere d’arte, baracche per il pernottamento dei lavoratori e per la custodia dei materiali e delle attrezzature. Tale attività gli assicurava un’entrata regolare che, oltre a contribuire ad elevare il tenore di vita della famiglia, gli garantiva la disponibilità economica necessaria per mantenere agli studi i figli in maniera più che dignitosa.
Nonostante il suo rientro fosse stato funestato dalla morte della moglie, deceduta dopo aver dato alla luce, a distanza di quattordici anni dalla nascita del primogenito, il secondo ed ultimo figlio Sandro, egli fece riprendere gli studi a Pietro, che, ormai quindicenne, fu mandato a Salerno nel convitto, a quel tempo, ancora annesso all’istituto superiore “ Regio Istituto Magistrale” presso il quale, con eccellente profitto, soprattutto nelle materie scientifiche e grafico-pittoriche, conseguì nella sessione estiva dell’anno scolastico 1937/1938, sia la Maturità Magistrale sia uno specifico diploma in Geometria che lo abilitava ad eseguire progetti per la costruzione di edifici in muratura. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, il giovane maestro, dopo aver superato il corso per Allievi Ufficiali di Complemento, fu assegnato, con i gradi di sottotenente, al 24° Reggimento “Cravatte Azzurre” inviato in Jugoslavia.
Come ufficiale guidò il “14° Battaglione mortai d’assalto” partecipando, dall’autunno del 1941 all’8 settembre 1943, alle operazioni di guerra al confine tra Croazia e Slovenia, zona molto pericolosa per i continui assalti dei nemici. Si distinse per le doti di coraggio, per l’equilibrio nell’esercizio delle funzioni di comandante, per le straordinarie capacità diplomatiche messe in atto con l’obiettivo di mitigare gli orrori della guerra, addolcendo, con convincenti strategie, lo spirito bellicoso dei Croati e ottenendo così una tacita tregua.
Degna di nota la decisione assunta a far saltare in aria, con le dovute precauzioni per non arrecare danni alle persone, l’officina che un meccanico usava clandestinamente come base di rifornimento di armi agli Sloveni con l’eloquente rischio di compromettere la situazione di non belligeranza che si era implicitamente instaurata tra i contendenti schierati sugli opposti fronti. La perentoria risoluzione provocò una contegnosa reazione dell’uomo, subito tramutatasi in riconoscente gratitudine, avuta contezza dell’attenzione osservata perché non venisse coinvolto nella drastica distruzione dell’immobile.
Finita la guerra e superato il concorso magistrale, si dedicò all’insegnamento in cui profuse ogni energia con il trasporto e la coscienza dell’educatore esemplare e versatile qual era, animato dal religioso intento di accendere di luce e di colori il cielo dell’avvenire di ogni suo allievo. Per la particolare dolcezza del carattere, la mirabile pazienza, e l’eccezionale tenerezza che nutriva per i più piccoli, gli si demandava spesso di svolgere la sua azione didattica in favore degli alunni delle prime classi.
Ed era nient’affatto un’agevolazione ove si consideri l’esorbitante numero degli iscritti alla prima elementare che spesso oltrepassava le sessanta unità delle quali, in quinta, arrivavano meno della metà, computando coloro i quali venivano inglobati, lungo il percorso dei cinque anni, perché ripetenti. Seguire sessanta bambini, guidare la loro manina a tenere la matita o la penna, indirizzarli ad orientarsi sul foglio di quaderno, specialmente nei primi tempi, richiedeva spirito di sacrificio autentico e amore incondizionato per scolaretti insicuri, impacciati, timidi. Soprattutto perché, salvo rare eccezioni, gli alunni delle prime classi, fino all’età dell’obbligo scolastico, non avevano toccato né matite né penne né quaderni ché tutto questo materiale, se circolava in casa per la presenza di fratelli più grandi che andavano a scuola, era categoricamente tenuto fuori della portata dei piccoli non già per la salvaguardia della loro incolumità, giacché, abituati fin dai primi anni di vita a rendersi utili e ad aiutare i più grandi nelle varie attività, essi diventavano capaci di maneggiare, con le dovute precauzioni, coltelli od altri utensili dotati di lame affilate, attrezzi taglienti, oggetti vari acuminati, bensì perché non arrecassero essi stessi danni al materiale scolastico consumandolo, spezzandolo o rovinando la mina alla matita, il pennino alla penna. Perché, a quei tempi, – siamo negli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale – per la maggior parte delle famiglie comprare libri e materiale per la scuola spesso significava sacrificare parte dell’indispensabile per sopravvivere, non già il superfluo o il voluttuario.
Pertanto, per avviarli a padroneggiare matite, colori e penne spesso sfuggenti al controllo di “manine adulte”, non abituate ad usare oggetti sottili e leggeri, occorreva possedere una particolare sensibilità connaturata e nutrire una speciale predilezione per bambini di quella età spesso bloccati, disorientati ed oltremodo incerti e timorosi.
E don Pietro per bontà, nobiltà di cuore e delicatezza d’animo non era secondo a nessuno: si avvicinava agli scolaretti, oltre che con la premura di amorevole padre, con simpatia e benevolenza sì da guadagnarsi, con la magia di un rassicurante sorriso e con la suggestione della suadente parola, la loro fiducia che sollecitava le menti a schiudersi, assetate corolle, alla rorida luce del sapere. Dopo aver operato per qualche anno nelle scuole della vicina San Pietro a Maida, si trasferì nella natia Curinga dove attese anche a funzioni di maestro fiduciario, ruolo abbastanza impegnativo in considerazione dell’elevato numero dei plessi scolastici sparsi nel vasto territorio comunale, che si estende dai monti al mare, costellato di numerose borgate, a quei tempi ancora densamente popolate, disseminate qua e là, a distanze considerevoli dal centro, e del fatto che l’ufficio di Direzione Didattica era a Maida.
Diresse anche alcuni corsi serali di “Richiamo scolastico” per adulti, istituiti per coloro i quali erano interessati a verificare la loro preparazione di base al fine di integrarla e consolidarla in funzione dell’attività svolta, o per ampliare e approfondire la personale cultura.
Aiutava privatamente, soprattutto nello studio della matematica, disciplina in cui era particolarmente versato, molti giovani che desideravano proseguire gli studi, dedicandosi con passione al loro elevamento culturale senza chiedere mai alcun compenso.
La vita sembrava scorrere fluida sui binari di una intensa operosità per don Pietro che si godeva la serena famigliola intimamente soddisfatto per i successi scolastici dei figli maturati sotto la sua discreta, costante, vigile ed apparentemente distratta assistenza affinché ogni progresso avesse crismi di conquista personale. Era, la sua, una famiglia-modello cui si guardava, da parte della gente, come esempio da assimilare e da realizzare nella vita, come immagine da imprimere nella mente e nel cuore per conformarvi la propria. Ci si volgeva a quella casa come ad un’oasi ubertosa dove fiorivano gesti discreti, ma frequenti ed intensi, di solidarietà umana e sociale, un’oasi a cui si poteva accedere in qualsiasi momento per attingere consigli, per avere aiuto, per trovare conforto, per ricevere sostegno morale e materiale, per ottenere una guida concreta per lo studio, per il lavoro, per la vita… con fiducia e senza essere minimamente sfiorati dalla sensazione di venir delusi, di restare a mani vuote, o di tornarsene indietro senza sprazzi di luce nella mente, o con vuoto di consolazione il cuore.
Erano ancora tempi in cui il maestro era la persona colta più vicina alla gente, facilmente interpellabile per qualsiasi evenienza, in qualunque momento e in ogni dove, senza formalità alcuna e senza preavviso di sorta. Don Pietro aveva anche la preziosità di un carattere dolce e rassicurante, di un’affabilità unica che faceva sentire a proprio agio chiunque si avvicinasse a lui per presentare le proprie necessità, le proprie difficoltà, per chiedere lumi, indicazioni, suggerimenti, soluzioni. E le sue risposte erano immediate, concrete, riservate, irrorate di calda, partecipe umanità.
Nessuno poteva presagire il dramma che si sarebbe consumato in maniera repentina e irreparabile nel volgere di qualche mese, quando era nel pieno vigore degli anni: una malattia subdola ed inesorabile si è presentata con effetti letali così devastanti e veloci da lasciare attoniti tutti: familiari, amici, colleghi, alunni, conoscenti, la gente comune e principalmente i medici di Curinga che, tutti insieme, si sono prodigati e costantemente confrontati per addivenire ad una diagnosi precisa e univoca e ad una terapia mirata e risolutrice.
Ma il male è stato rapido e inesorabile e nulla si è potuto.
Con rammarico cocente e rimpianto infinito.
E quando egli, avendo letto sul viso dei medici, amici prima che dottori, l’espressione inequivocabile della loro impotenza, sente venir meno le forze, desidera soltanto inebriarsi del volto dei teneri figli, della sposa diletta: ad essi riserva i suoi più struggenti pensieri, i suoi più intensi e profondi palpiti d’amore a coronamento di un affetto incommensurabile e lungo tutta quanta una vita. E, sicuramente, ben oltre la vita.
Con l’ immagine dei propri cari negli occhi e i loro sospiri nell’anima, dimentico ormai dei patimenti del corpo, si solleva, purificato dalla sofferenza, lieve nel Cielo d’onde l’orizzonte più ampio gli permette di spiegare su di essi, senza confini, eterne e serene, le sue ali amorevoli e protettive. Un’onda di dispiacere a flusso continuo invade allora la mente di tutta la comunità e ristagna per tanto tempo ancora nel fondo di ciascun cuore intridendo di commozione pensieri e parole per tutta quell’estate per poi riacutizzarsi alla riapertura dell’anno scolastico quando gli allievi non hanno rivisto splendere nell’aula la luce del maestro Pietro Terranova ed i maestri quella sfolgorante e fraterna del collega nella Scuola.
L’angoscia indugerà a lungo nei meandri dell’anima dei familiari e degli amici, frenando il faticoso incedere lungo l’erto sentiero della rassegnazione.
Soltanto allorché le pennellate del tempo sono riuscite a posarsi sulle lacerazioni interiori lenendone gli spasmi con il loro flebile fruscio e i pensieri hanno avuto la forza di sfondare il muro del dolore per respirare i ricordi e concentrarsi sui periodi più significativi della sua vita, quando con la semplice presenza impreziosiva in tanti modi ogni ambiente in cui operava e l’esistenza stessa di chi gli stava intorno, sia pur per brevi momenti, i bagliori della consolazione si sono potuti insinuare nell’animo, e il cuore trovare conforto e ristoro.
La sua presenza-assenza, costantemente percepita e profondamente vissuta, non faceva altro che conferire sacralità ai gesti, agli atti, alle parole ed agli insegnamenti che hanno caratterizzato la sua essenza di padre, di sposo, di maestro, di uomo.
Ancora oggi, nonostante l’affannoso scorrere degli anni, quello smarrimento giovanile riaffiora spesso ineluttabilmente dalle radici dell’essere e si adagia, forse complici accondiscendenti noi stessi, sulle rive della nostra mente. Perché ogni qualvolta i pensieri, sorvolando le alterne vicende dell’esistenza, si posano sulle ormai remote stagioni color della speranza della nostra vita, vi percepiscono, definita, indelebile, l’ombra di tristezza scritta da un fato spietato in quell’amara estate del 1956.
Dai recessi dell’anima trasuda allora, puntuale, incontenibile, un senso di struggente scontento e d’indicibile malinconia e si condensa in una lacrima che, mesta e greve, pencola sospesa alquanto alle corde del cuore.
Come un tempo.
Scivola poi, silenziosa e penetrante, tra le trame della memoria e col suo calore accarezza e vivifica il caro ricordo del prof. Pietro Terranova che, primo, ha guidato dolcemente i miei passi e quelli di tanti altri bambini nell’arcano mondo della scuola e, dal profondo dell’anima, un grazie sboccia spontaneo, profumato di riconoscenza immensa.
E senza tempo.
Curinga, 21 aprile 2012.
Martino Granata
Ci è grato concludere questa doverosa rievocazione riportando il testo, composto dai familiari e dagli amici, del pro–memoria, corredato di fotografia, distribuito nella ricorrenza del trigesimo dalla sua morte, significativo compendio dei suoi programmi di vita, spietatamente interrotti nel periodo più fecondo, ed eloquente espressione dell’atmosfera di generale afflizione che si respirava in quei tristissimi giorni:
“Sei passato sulle strade del mondo
con tante illusioni nel cuore
e tanti sogni negli occhi profondi.
Ora che manca il tuo sorriso
ci circonda il vuoto triste
perché nessuno
nell’avventura terrena
fu più di te buono e onesto.
La tua memoria
sia guida ai tuoi bimbi
conforto ai tuoi cari
dolce rimpianto
di chi ha vissuto con te
nel tuo piccolo mondo
ed ha diviso con te
le tue grandi speranze”
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