Professore Sebastiano Augruso

Sebastiano Augruso

 Ricordando

il Professore Sebastiano Augruso

Sebastiano Augruso nacque a Curinga il primo gennaio 1948. Conseguita brillantemente la maturità classica presso il liceo “F. Fiorentino” di Lamezia Terme, proseguì gli studi all’Università ”La Sapienza” di Roma, dove si laureò a pieni voti in lettere classiche discutendo una tesi sulla reinterpretazione storicistica delle origini cristiane in Adolfo Omodeo. Si diede quindi all’insegnamento e dopo esperienze maturate in diverse sedi della Calabria arrivò nell’anno scolastico 1983- l984 nella Scuola Media di Curinga, dove restò ininterrottamente in servizio fino all’anno 2003/2004, quando fu costretto al pensionamento dalla malattia che lo avrebbe condotto alla morte, il 5 gennaio 2005.

Il notevole spessore culturale del suo insegnamento e una sua quasi naturale disposizione dell’animo lo inducevano, congiuntamente, a considerarsi in continua formazione anche sul piano professionale. Curioso delle innovazioni, seppe sempre comunque valutarle criticamente e passarle attraverso il filtro della sensibilità maturata nel rapporto diretto con gli studenti. Alla fine, il metodo di insegnamento da lui adottato era sempre il risultato di una personale assunzione di responsabilità.

A siffatta unità di vita, che legava e fondeva lavoro professionale e convincimenti ideali e anzi religiosi, giungeva per due diverse sollecitazioni. La prima, e più consistente, sollecitazione gli veniva dall’intensa pratica religiosa e dalla frequentazione quotidiana delle Scritture bibliche, che alimentavano la sua consapevolezza morale della storia. La seconda sollecitazione, di radici nobilmente laiche, derivava dalla meditazione di pagine alte di intellettuali che, come Salvemini, si misero a servizio delle plebi meridionali. Anche questi diversi filoni alla fine si fusero nella sua visione della missione educativa quasi come profezia che, sulla scia del profeta Elia, smaschera e abbatte gli idoli della vita pubblica.

Fu perciò tra i promotori più convinti di un insegnamento che favorisse una lettura critica della cultura del territorio da parte degli alunni e, allo stesso tempo e con identico fervore, di un rapporto dinamico e vitale tra la scuola e la comunità curinghese. Il suo arrivo nella scuola di Curinga coincise con l’avvio di una serie di ricerche sul nostro dialetto, sull’insediamento umano nel territorio comunale, sull’edilizia religiosa, sulla pietà popolare. Ma fu proprio lui il più attento garante del rigore con cui tali lavori vennero portati avanti praticamente per un ventennio. Si può ben dire che senza la sua passione, senza il suo contributo di ricerca, senza la sua fatica disinteressata, senza la sua intelligenza unitaria della vita civile e della fede religiosa, non avrebbero visto la luce né L ‘acqua di Gangà, che raccoglie amorosamente tracce e reperti della cultura orale della nostra comunità e dei suoi “tempi”, né Geografie verticali, il libro che canta la trasfigurazione religiosa dello “spazio” comunitario senza menomarne la giusta autonomia civile: entrambi strumenti preziosi e irrinunciabili per definire l’identità curinghese.

Il professore Augruso per molti anni ricoprì nella scuola incarichi di responsabilità, ma la sua ‘specialità’, unanimemente riconosciutagli dai colleghi, fu la cura e la gestione della biblioteca. Promosse l’acquisto di nuovi volumi, si adoperò incessantemente per trasformare la biblioteca da luogo di conservazione dei libri a vero e proprio laboratorio di lettura, di scrittura e di ricerca, ordinò il materiale esistente secondo rigorosi criteri di catalogazione, realizzò praticamente un vero e proprio archivio fotografico coinvolgendo sapientemente decine di alunni. Svolse questo incarico in modo encomiabile, come poteva fare un intellettuale amante dei libri, uno studioso rigoroso alieno dalle improvvisazioni, un insegnante profondamente convinto del suo ruolo di educatore nel senso più pieno e più alto del termine. Curò tra l’altro un rapporto fecondo con la Biblioteca Comunale di Curinga: anche grazie a lui, le due biblioteche operarono in piena collaborazione realizzando pregevoli iniziative, e numerosi e qualificati furono i contributi che egli diede al Piacere di leggere, periodico della Biblioteca Comunale.

Sebastiano Augruso, infatti, fu più che un insegnante e svolse il suo ruolo di educatore anche al di fuori della scuola, con il suo impegno sociale e culturale, con le sue attività di ricerca, con le sue pubblicazioni, offerte sempre come contributo alla riflessione e al confronto fra le idee. Collaboratore apprezzato di numerose riviste, anche di rilievo nazionale (La Madonna del Carmine, Quaderni calabresi, Gioventù protagonista, Quaderni lametini), fu promotore egli stesso di pubblicazioni periodiche (La memoria e altroLettere dal Carmelo), Tra i suoi interventi più significativi, oltre a quelli già ricordati: La porta del profeta Elia (Curinga, 1981), Beni culturali e vita di pietà a Curinga tra il XVI e il XVII secolo (La memoria e altro, 1997), Contemplazione, cultura, memoria storica del popolo (Lettere dal Carmelo, 1991).

Appena pochi giorni dopo la sua morte arrivò in libreria, edita dalla Qualecultura, la traduzione in dialetto curinghese del Cantico dei Cantici: ultimo atto d’amore per la cultura della terra natia, “frutto dell’ascolto” (Pino Stancari) di un uomo innamorato di Dio, esperienza mistica e avventura esistenziale al culmine di un percorso di ricerca intensa e appassionata che aveva permesso di recuperare pienamente “lo spazio culturale e la sensibilità in cui il Cantico è stato elaborato” (Paolo Martino).

Molti sono i lavori pubblicati, ma molti sono quelli non pubblicati, perché concepiti principalmente all’interno di un contesto particolare (come nel caso del Gruppo di spiritualità del Carmelo da lui fondato a Curinga) o per quello che molti amici ritenevano un eccesso di rigore scientifico che lo spingeva sempre alla ricerca di nuovi documenti sul tema di cui si stava occupando. Ma, in realtà, non hanno niente di incompiuto né paiono ‘per pochi intimi’ i lavori che via via sono stati pubblicati dopo la sua morte, dalla bella biografia di A. Parisi (nel volume I monasteri basiliani del Carrà, Qualecultura, Vibo Valentia 2007), a Memoria ecclesiae (ivi 2007) che raccoglie saggi e articoli d’interesse pastorale, alle lectio pubblicate dalla editrice Messaggero, Padova 2007).

Sebastiano Augruso fu insomma un educatore nel senso più alto e nobile della parola: esplorava vicende antiche e recenti della comunità e rintracciava documenti della pietas d’un popolo per nutrire il suo insegnamento quotidiano e per trasmettere non tanto o solo nozioni ma la consapevolezza profonda d’una identità e d’una cultura capaci di rispondere vittoriosamente alle sfide del futuro.

…Ricordando il Professore Sebastiano Augruso Il Docente, il Ricercatore, l ‘uomo di Fede

di Francesco Senese

Ho accolto volentieri l’invito degli amici di “Gioventù Protagonista” a ricordare il prof. Sebastiano Augruso dalle colonne di questo giornale, che lo vide, alla nascita, solerte e autorevole redattore.

Gli articoli che vi pubblicò, e dei quali in questo numero si ripropone quello sulla droga, ne sono preziosa testimonianza.

Il professore Augruso è mancato da più di un mese, ma il suo ricordo, la sua presenza sono sempre vivi tra noi, tra i suoi amici, tra i suoi colleghi; anzi più il tempo passa e più sì avverte, tra quanti ne hanno potuto apprezzare le doti non comuni, il vuoto incolmabile da lui lasciato e, allora, il dolore diventa più struggente per l’amico perso, per il compagno di tante iniziative e di tanti progetti pensati ed elaborati assieme, dentro e fuori la scuola, per il valoroso docente sottratto ai suoi alunni. Nello stendere queste brevi note l’emozione è la stessa di un mese fa, quando in tanti lo accompagnammo in Chiesa per rendergli l’ultimo mesto saluto. Non è facile parlare o scrivere dell’amico più caro che non c’è più e insieme con il quale sì è trascorsa una vita, senza che un nodo non ti prenda alla gola.

Tanti sono i ricordi, i pensieri che affollano la memoria: gli anni della fanciullezza, la scuola, gli studi universitari, gli interi pomeriggi e le notti inoltrate – specie quando si avvicinavano gli appelli – dedicati alla preparazione delle materie d’esame nella mia o nella sua stanza alla Casa dello studente di Roma, avvolti in una nuvola di fumo che si levava dai suoi sigari o dalla sua pipa; l’andare, squattrinati, per le librerie del centro di Roma a guardare e a sfogliare i libri senza poterne acquistare alcuno se non raramente; il lavoro, la frequentazione quasi quotidiana, le lunghe telefonate, le ore liete trascorse dinanzi al caminetto, nella sua biblioteca, in mezzo a centinaia e centinaia di volumi, a chiacchierare * e a discutere, da soli o insieme con gli amici, di politica, di libri, di quelli letti, di quelli recensiti dai giornali e dalle riviste, di quelli da comprare e da leggere… Ora è tutto finito. Col professore Augruso se ne è andata anche una parte di noi.

Egli ormai non è più che un ricordo, una memoria. Ma quale memoria e quale ricordo!

* * *

Il professore Augruso frequenta la scuola media a Maida, dove arrivava ogni mattina, insieme con altri ragazzi, col pullman di Foderare intorno alle sette e attendeva per le vie del paese che la scuola alle 8,30 aprisse i battenti e lo accogliesse nelle sue aule (allora a Curinga c’erano solo le scuole elementari); quindi si iscrive al Liceo classico “F. Fiorentino” di Lamezia Terme, dove incontra docenti di grande valore, come i professori di lettere Renato Borrello ed Eugenio Leone, i quali hanno un forte ascendente su di lui. Ma è soprattutto don Saverio Gatti, insegnante di religione, ad influenzare profondamente la sua formazione umana e religiosa: il suo modo di intendere e di praticare il Vangelo lo segnerà per tutta la vita. Lo aiuta a superare la crisi adolescenziale religiosa che lo tormenta. Don Saverio per lui è un maestro di vita. Avrà sempre l’affettuosa riconoscenza del suo allievo.

Conseguita la maturità classica si iscrive alla facoltà di lettere e filosofia dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza”. Beneficia, in virtù dei voti ottenuti, di un posto nella Casa dello studente. E’ il periodo della contestazione giovanile, che ha, come epicentro, le facoltà di Architettura, Lettere e Giurisprudenza. Le facoltà vengono occupate per lunghi mesi, le attività didattiche forzatamente sospese. Bebé vuole capire le ragioni di fondo della protesta al di là degli aspetti superficiali e spettacolari. Si dedica allora alla lettura delle opere di Herbert Marcuse, considerato il padre della contestazione.

Approfondisce soprattutto “L’uomo ad una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata” ed “Eros e civiltà”. In questi testi il filosofo tedesco sostiene che sia ad Est, cioè nel sistema comunista, sia ad Ovest, nel sistema capitalistico, la società industriale è totalitaria e disumana, perché ” l’applicazione della scienza e della tecnica ai processi produttivi e l’organizzazione industriale del lavoro comportano inevitabilmente l’utilizzazione tecnico-strumentale degli uomini”, i quali “si muovono (in un universo standardizzato) come ingranaggi, e il loro modo di pensare e di comportarsi si è perfettamente adeguato a questo meccanismo. La razionalità scientifico-tecnica e la manipolazione – conclude Marcuse – si sono saldate insieme e hanno generato nuove forme di controllo e di dominio sociale” (Giuseppe Bedeschi).

La lezione che ne trae il giovane studente universitario è che bisogna battersi per costruire una società che metta al centro la persona, non ne mortifichi la dignità e non neghi la sua identità. Ma per far questo non basta la politica, necessita un’azione più complessa di chiarificazione nella quale siano coinvolti non solo i partiti, ma tutte le forze vive che operano nella società, a diversi gradi di responsabilità, In questo quadro la Chiesa non può non farsi carico in modo particolare dei problemi delle classi più disagiate.

Queste convinzioni trovano alimento nella impostazione de “L’Avvenire d’Italia”, il quotidiano cattolico allora diretto da Raniero La Valle e, soprattutto, in quella del settimanale “Sette Giorni in Italia e nel Mondo”, diretto da Ruggero Orfei e Piero Pratesi. “Sette giorni” guarda ai problemi italiani e internazionali con occhi nuovi, alla luce delle istanze di rinnovamento del Concilio Vaticano II.

Ugualmente lo fanno riflettere le “provocazioni” di Pasolini: la, sua polemica nei confronti dei giovani contestatori, nel cui estremismo lo scrittore vede l’espressione di una nuova piccola borghesia, per cui in una poesia dal titolo Il PCI ai giovani!! giunge paradossalmente a difendere i poliziotti, di origine proletaria, contro gli studenti, figli di papa, borghesi e piccolo – borghesi; il suo farsi paladino dei valori della più aulica tradìzione; il recupero del dialetto come opera di poesia.

Pasolini sarà uno degli autori da lui più amali. Non a caso: “Segno di contraddizione, quest’uomo interpretava con coraggio, nei suoi dissidi, le contraddizioni della società: militante di sinistra, non esita a confessare le proprie radici decadenti; | …| si pronuncia contro la distruzione di valori di cui coglie un senso sacro (la lingua impoverita dalla massificazione, l’ambiente deturpato dalla Speculazione, la vita minacciata dall’aborto). in una volontà di rigenerazione nella quale tende a idealizzare come una genuinità edenica e perduta ora la civiltà cattolico – contadina, ora i diseredati

delle borgate, ora i poveri del Terzo Mondo. Ambientando la crocifissione nel Terzo Mondo o nel proletariato (nei film II Vangelo secondo Matteo e La ricotta), confronta ostinatamente la purezza ideale con l’impura realtà: così questo laico e contraddittorio autore mostra una tensione di natura autenticamente religiosa” (Giovanni Tesio). Segue con interesse le posizioni di Roger Garaudy, l’intellettuale francese che rompe col comunismo dopo l’invasione sovietica della Cecoslovachia nell’agosto 1968 e. dopo essere stato per anni il fedele custode dell’ortodossia comunista, “attacca con veemenza il cosiddetto “socialismo reale” in nome di un socialismo dal volto umano e, sul terreno teorico. …promuove una lettura (del marxismo) in chiave personalistica che lo apre al dialogo e al confronto con le posizioni cristiane…” (Foriero -Tassinari). Garaudy, nel confronto tra le due concezioni dell’uomo – quella marxista e quella cattolica – è “un protagonista di primo piano, assieme a teologi come Rahner e Metz, assieme a uomini della Chiesa come padre Balducci e padre Turoldo, i quali da tempo hanno imboccato la via dell’apertura ai non credenti e del rinnovamento ecclesiale, via che sarà poi formalmente dischiusa e autorevolmente confermata dal Concilio Vaticano II” (Barone), Ma in Sebastiano un interesse sovrasta tutti gli altri: lo studio della Bibbia, sottoposta ad una lettura continua ed approfondita e ad una analisi minuziosa, e il dibattito interno alla Chiesa postconciliare. Il Vangelo e la Chiesa sono per lui ragione di vita. Presso la Cappella Universitaria conosce il padre gesuita Pio Parisi; nasce uno straordinario rapporto di amicizia, che, arricchito da un comune percorso di ricerca intellettuale e spirituale, durerà per una vita intera. Si laurea a pieni voti discutendo una tesi sulla rein-terpretazione storicistica delle origini cristiane in Adolfo Omodeo; quindi inizia la carriera di insegnante prestando servizio per alcuni anni a Ciro Marina, nel crotonese, e a Chiaravalle Centrale, poi ininterrottamente nella scuola media di Curinga fino al pensionamento, cui è costretto dalla malattia, accettata con cristiana rassegnazione e socratica serenità.

Il prof. Augruso aveva una personalità ricca e complessa, una mente versatile e acuta, una intelligenza delle cose pronta e riflessiva. Aveva capacità non comuni nel cogliere, nei fatti, le ragioni profonde che li sorreggevano, ragioni di ordine economico, etico, culturale, ecc.; le sue analisi erano sempre illuminanti, puntuali, penetranti, ricche di connessioni e richiami. I suoi interessi spaziavano dalla musica alla pittura, dalla letteratura alla religione, dalla filosofia alla storia. Lo appassionavano gli studi classici e umanistici, il latino, il greco, la letteratura italiana e straniera, la poesia

contemporanea, Montale, Ungaretti. Ma ancor più lo appassionava, come abbiamo detto, lo studio dei testi sacri, di cui aveva una straordinaria conoscenza; vi era arrivato spinto dalla sua particolare curiosità intellettuale e, più ancora, dalla profonda fede religiosa che lo ha sempre animato. Per queste sue qualità il Vescovo di Lamezia Terme lo ha voluto nel Consiglio pastorale diocesano.

Ma si badi: non una fede bigotta, astratta o “astrale”, come dice lui, scollegata dal mondo, ma tutta calata nella realtà di questo mondo. Nel presentare al pubblico di Curinga, nel giorno di Pasqua 1970, un ciclostilato riproducente due poesie di David Maria Turoldo – “Non io, America…” e “Anch’io, America” – e curato dal Gruppo Giovanile di Presenza Cristiana “Martin Luther King” di Curinga, da lui fondato insieme con altri giovani, dopo aver precisato che “la ragion d’essere del nostro gruppo nel contesto ecclesiale ed umano di Curinga rimane quella della ricerca di un modo nuovo dell’esercizio della Fede”, così continuava: “una Fede non più intesa come scelta destinata a rimanere nell’ambito chiuso ed astrale dei rapporti del singolo col suo Dio e, tutt’al più, come norma utile a regolare i rapporti inter-individuali, ma come categoria spirituale capace di ispirare giudizi su tutti gli aspetti della realtà umana e di fondare un’azione concreta intesa a cambiare la realtà stessa”.

E in un ciclostilato diffuso “Nell’Epifania del Signore 1971” sempre a cura del Gruppo “Martin Luther King” così scrive, a proposito della presenza della Chiesa nelle nostre comunità: “Per lo più nella nostra comunità predomina una visione rigidamente integralista, che fa della Chiesa una società accanto ad altre società, un gruppo umano con la sua filosofia, con le sue istituzioni culturali, col suo partito infine. In molti casi il permanere di un atteggiamento del genere è determinato dal fatto che noi viviamo in una condizione storica nella quale non si è verificato ancora il fenomeno della secolarizzazione, legato a società ad alto livello di industrializzazione, dove la Chiesa ha finito per sempre di svolgere attività che erano suppletive delle carenze della organizzazione civile e ha riscoperto la propria identità più genuinamente religiosa di gruppo che si riconosce unicamente nella fede in Gesù Cristo. In altri casi – non sono pochi – il legame della Chiesa con una determinata organizzazione politica dipende invece dal fatto che essa svolge un ruolo di supporto ideologico nei confronti di forze economiche che hanno bisogno di una tale copertura per imporre i propri interessi alla massa”. Poi continua: “Questa analisi (…) si attaglia in modo particolare alla situazione meridionale dove si assiste ancora all’aberrazione di sezioni di Azione Cattolica usate, in periodo elettorale, come centro di propaganda e che si esprimono ufficialmente attraverso gli organi di un partito politico”.

Queste prese di posizione creano tensione con la Chiesa locale, che si vede contestata, per il suo modo di essere, dal suo interno con argomentazioni rigorose e ispirate ad una visione nuova della sua presenza nella società. Sono i nuovi venti del Concilio che spirano anche su una piccola comunità come quella di Curinga, scuotono vecchie certezze e mettono in discussione vecchie “usanze”.

Il professore Augruso chiama la Chiesa ad un ruolo nuovo, la invita a voltare pagina, a bandire qualsiasi integralismo, a muoversi nella prospettiva della liberazione dei poveri: “Non pensiamo che i cristiani, sol perché cristiani, abbiano in tasca la risposta ai problemi sociali. La Fede non è una analisi economica, un progetto sociale, una ricetta politica. In ogni caso però la Fede non può non determinare una precisa scelta di campo ed una prospettiva: il campo dei poveri e la prospettiva della loro liberazione”. Così conclude in modo netto con affermazioni che richiamano la “teologia della liberazione”: “Il cristiano non può essere interclassista perché davanti all’ingiustizia e all’oppressione non si può essere? neutrali. Il cristiano giudica la storia, le realizzazioni di una civiltà, le sue istituzioni, la sua cultura dal punto di vista dei poveri ed esse gli appaiono positive o negative a seconda che contribuiscano o meno a ‘sciogliere i vincoli del giogo, a mandare liberi gli oppressi, a spezzare ogni giogo (Isaia, LVIII, 6)”.

Date queste premesse, il passo per l’incontro con le istanze più profonde del movimento operaio e socialista, con “l’umanesimo socialista”, era breve. Con il che non si vuoi dire che il professore Augruso abbia aderito o militato in una qualsiasi formazione politica. Non lo fece neppure quando venne eletto consigliere comunale nel 1976 come indipendente di sinistra nella lista del PCI. Si intende semplicemente affermare che egli si riconosceva nelle aspirazioni, nei valori di solidarietà e di libertà propri della tradizione socialista, la quale non si risolve nella storia del partito socialista e nella dottrina marxista, ma comprende quell’insieme di stati d’animo, di aspirazioni, di “sogni ad occhi aperti”, che ha origine la più varia.

Egli si sente piuttosto coscienza critica della sinistra, pronto in ogni occasione a dare il suo contributo di idee e di proposte, lo sguardo rivolto sempre in avanti, al di là degli steccati e delle divisioni più o meno giustificate dei partiti, attento a cogliere i mutamenti intervenuti nei rapporti sociali e nella cultura, intesa in senso antropologico, della nostra comunità. Anche grazie a queste convinzioni e a questa tensione morale si avvicina alle posizioni elaborate dal gruppo che fa capo all’avvocato Francesco Tassone e alle tematiche dibattute dalla rivista “Quaderni del Sud Quaderni Calabresi”.

Sebastiano Augruso avrebbe potuto insegnare almeno negli Istituti Superiori, ma ha scelto di restare nella Scuola Media di Curinga, perché ha voluto mettere le sue energie e la sua intelligenza al servizio di questa comunità. Allo studio e alla storia di questa comunità ha dedicato anni della sua vita, conducendo nella Scuola, insieme con altri colleghi e con gli scolari, ricerche universalmente apprezzate quali “L’acqua di Ganga” e “Geografie verticali”.

Altre pubblicazioni non ha fatto in tempo a vederle, perché la morte lo ha colto prematuramente. In questi giorni è in distribuzione presso le edicole e le librerie la traduzione in dialetto calabrese del Cantico dei Cantici, che lo ha impegnato fino agli ultimi giorni di vita. Era convinto – sono parole sue – della “necessità di creare spazi ad un’attività promozionale della cultura storica di livello sufficientemente serio, legata da forti motivazioni morali e civili al territorio, animata da una consapevole volontà educativa, capace di stimolare un rapporto vitale tra la memoria come coscienza critica del proprio passato lontano e recente e il confronto attivo e problematico col presente”.

Sono queste le ragioni per le quali si fece promotore e animatore della rivista “La memoria e altro” e della “Associazione per la promozione della cultura storica”.

Appare chiaro anche da questi brevi e disorganici cenni che le ricerche degli anni della maturità, sul dialetto, sulle tradizioni popolari,

sulle manifestazioni della pietà popolare, sulla vita delle Congreghe, sul monastero di “Sant’Elia Vecchio” non nascono da dilettantismo superficiale e alla moda, ma sono sorrette, oltre che da una grande passione, da un solido, robusto e vasto retroterra culturale, che affonda le sue radici negli anni del Liceo e soprattutto negli anni dell’università e che è frutto di studi severi e faticosi.

Molte sue ricerche sono nate nella scuola; per lui la scuola viveva e vive se radicata nel territorio: “Cultura del territorio” era il titolo del corso facoltativo che da più anni teneva nel pomeriggio. Era fortemente perplesso sulle più recenti impostazioni di riforma: temeva che si volesse modellare la scuola sulla azienda, mutuandone linguaggio e metodi.

Ripeteva continuamente: “La scuola non è un’azienda, noi non abbiamo a che fare con oggetti, ma con persone; gli alunni non possono essere considerati alla stregua di oggetti, gli alunni sono persone e come tali vanno giudicati, cioè vanno giudicati ognuno secondo la propria personalità, perché la personalità, essendo l’insieme delle caratteristiche individuali, varia da ragazzo a ragazzo e può presentare infinite sfaccettature; pertanto i metodi di valutazione, le impostazioni, le misurazioni della scuola devono essere diversi rispetto a quelli dell’azienda”. Per lui la scuola, se non voleva e non vuole smarrire la sua funzione formativa e critica, doveva e deve mantenere una forte impronta umanistica.

Il prof. Augruso ha esercitato il suo magistero con umiltà, amore e sapienza; ne hanno tratto vantaggio gli alunni, ma anche gli insegnanti, i quali, in anni di frequentazione quotidiana, hanno potuto fare tesoro delle sue conversazioni sempre affascinanti, ricche di umanità e di dottrina.

Egli ha dato lustro e prestigio alla scuola di Curinga; la sua esperienza professionale e umana è motivo di vanto per la nostra comunità.

Considero un privilegio aver condiviso tante esperienze con te, professore Augruso. Gradisci, amico carissimo, queste poche parole, a te offerte, secondo l’uso antico rievocato dal poeta, quale “dono dolente alla tomba”.

‘Atque in perpetuimi, frater, ave atque vale!”

Maggiore Sebastiano Perugino

Sebastiano Perugino

MAGGIORE SEBASTIANO PERUGINO

Il Maggiore Sebastiano Perugino nacque a Curinga l’I aprile 1869 da Michelangelo ed Elisabetta Lorusso.

Entrato nell’Arma dei Carabinieri, raggiungeva per i suoi meriti il grado di Maggiore.

Alla conclusione della carriera si ritirava a Curinga dove visse fino alla morte, avvenuta il 30 novembre 1940, circondato da unanime stima per l’alto profilo morale della sua personalità, per la socievolezza, per la sua sensibilità civile.

Fu vicino ai giovani che aspiravano ad elevarsi verso più alti traguardi di natura culturale ed accompagnò con la sua prefazione la produzione poetica di qualcuno di essi.

Espresse il suo sentimento religioso soprattutto nel rapporto assai vivo con la Confraternita del Carmine, per la quale acquistava una pregevole statua in legno policromo della Titolare, opera dello scultore Vincenzo Moroder di Ortisei.

Non è da escludere che proprio da un fondo di compassione umana ed evangelica per gli indigenti, unito all’alto senso dello Stato, – verso il quale si sentiva quasi debitore e dal quale ripeteva spesso di aver ricevuto tutto – sia nato nel Perugino il progetto di devolvere la maggior parte dei suoi averi all’ex Ente Comunale di Assistenza di Curinga per la creazione di “un Ospizio di mendicità per i poveri più bisognosi del… paese”, dei quale avrebbe dovuto essere Presidente sempre di diritto il Priore della Congregazione di Maria Santissima del Carmelo.

Nella cappella cimiteriale della stessa Congregazione, in una sepoltura perpetua, riposano attualmente le spoglie mortali del Magg. Sebastiano Perugino. L’istituzione da lui voluta con testamento del 7 giugno 1940 fu nel giro di qualche anno realizzata dall’Amministrazione comunale di Curinga ed andò, con passare del tempo, qualificando sempre più le proprie prestazioni.

Affidata fin dagli inizi alle Suore Terziarie Francescane del Signore di Caltanissetta, essa è attualmente in funzione, assicurando una dignitosa ospitalità a numerosi anziani di Curinga e di vari altri Centri della Calabria.

Maestra Teresa Augruso

Teresa Augruso

 Teresa Augruso

Teresa Augruso Nella nostra città sono vissuti, in tutte le epoche, grandi personaggi nei più svariati campi della vita e della cultura. Purtroppo molti di essi sono passati in silenzio, senza che umanamente si tributasse loro il giusto riconoscimento. Qualcuno è scivolato nel

“dimenticatoio”,qualcun’altro è stato apprezzato e valorizzato solo da pochi, altri — i più fortunati —sono stati rivalutati a distanza di tempo, dopo la morte che non ha reso giustizia ai loro meriti sia morali che intellettuali. È l’esempio di Teresa Augruso che definire semplicemente poetessa potrebbe risultare diminutivo, considerate le molteplici virtù che la spinsero a cimentarsi in numerose attività culturali e didattiche. A distanza di oltre un quarto di secolo dalla sua morte,si sta riscoprendo e in buona parte scoprendo il grande bagaglio di opere e composizioni realizzate in oltre cinquant’anni di vita artistica. Teresa Augruso nasce a Curinga il 1 ° Gennaio 1897 da padre curinghese e madre napoletana. Ha una fanciullezza serena e felice, trascorsa assieme ai suoi genitori e ai suoi fratelli (due maschi e tre femmine). Frequenta le Scuole elementari nel paese natio, e quelle Superiori a Catanzaro dove è ospite nella casa di Contrada Campagnella di una sua compaesana che, nei suoi scritti, descrive come “amorevolmente severa” . Si diploma giovanissima in magistero e, a soli diciassette anni, vince il concorso per il quale è assegnata alla Scuola di Acconia di Curinga. In quegli anni conosce e si lega sentimentalmente al sottotenente Aquilino Serra, reduce della Grande Guerra (del celebre reparto Arditi d’Italia) che sposerà nel 1920. A seguito della richiesta di trasferimento, le I viene assegnata la cattedra presso la scuola dell’Annunziata nell’omonima frazione di Nicastro. Successivamente passa al I Circolo didattico con sede nell’edificio scolastico «Magg. Raffaele Perri», dove resterà maestra fiduciaria per tantissimi anni. Per due anni consecutivi frequenta a Roma dei corsi nazionali di ginnastica ai quali fa seguito l’incarico di insegnante di Educazione Fisica per tutte le Scuole secondarie inferiori e superiori della città. Ciò le permetterà di insegnare contemporaneamente sia nelle “elementari” che nelle “medie superiori” anche oltre il normale orario di lezione. Negli anni Venti organizza una piccola compagnia teatrale portando in scena le operette «Casa Pierrot», «Mascotte» ed altre ancora. Fin da ragazza a Curinga — dove frequentava Casa Bevilacqua, cenacolo di cultura e di teatro — si cimentò in lavori di rappresentazione delle opere di Moliére, Goldoni Pirandelìo. Negli anni di insegnamento la sua abitazione, nelle ore pomeridiane, diventava anch’essa centro di cultura e di studio: prestava infatti gratuitamente lezioni private a quasi trenta bambini per l’ammissione alle scuole medie. Fu segretaria dell’Associazione religiosa S. Vincenzo De’ Paoli, e Crocerossina volontaria. Preparava sovente dei saggi ginnici curandone, oltre alla parte tecnica, anche la coreografia. Era una donna instancabile ed eclettica sotto tutti i punti di vista. Si interessò sempre di lettere e di varie discipline del sapere: si ricordano in proposito alcune sue conferenze di carattere scientifico nel salone municipale di Nicastro. Disegnava alla perfezione e sapeva scrivere in modo brillante e piacevole. In merito svolse un’intensa attività pubblicistica su riviste quali Calabria Letteraria, cimentandosi sull’analisi critico – letteraria degli scrittori calabresi. Fu redattrice di Rassegna Calabrese, e articolista dell’Arca di Piacenza e della rivista americana Divagando New York. Alcune sue recensioni apparirono sul Tempo, sul Roma e sul Messaggero. Nel lontano 1939 diede vita al gruppo folkloristico di Nicastro di cui divenne pure direttrice artistica e autrice di canti, musiche e scenette. In particolare, del suo repertorio, vanno menzionati due opuscoletti contenenti canzoni, tradizioni e un’attenta descrizione

del costume nicastrese. Nel 1950, si trasferisce temporaneamente a Roma dove insegna in S. Cesario e in Zagara lo. Ben presto farà definitivo ritorno nella sua amata Nicastro dove le viene assegnata una cattedra presso la Scuola elementare di S. Teodoro. Ivi resta sino alla fine della sua carriera didattica, anche quando si rende libero un posto presso il rinomato Istituto “Magg. Raffaele Perri”. Si dedicò alacremente alla ricerca culturale e storica di questa parte vecchia di Nicastro, per lei ricchissima di fascino. La sua vena poetica fiori e si consolidò in poesie in lingua, e — nella maggioranza — in vernacolo. Scrisse in proposito una raccolta di poesie dal titolo Canto degli Alberi. Nello stesso periodo “inventa” un espediente didattico per l’apprendimento facilitato delle tabelline pitagoriche che le verrà brevettato. Le sue canzoni e suoi inni riscuotono molti successi e vincono parecchi concorsi scolastici e non, fra i quali va ricordato quello postumo del 1981 ad Assisi in occasione della 19a edizione nazionale per le scuole medie “Ragazzi in gamba d’Italia”, con la canzone Pirò Bonasera ‘Ntoniuzza, che conquista il primo premio. Mai la sua anima si fece arida o assente dinanzi alle voci e ai problemi altrui che travagliano l’esistenza dell’uomo. «Non volere anima mia sentirti arida spugna in petto rude» recita nella poesia Non volere premiata da Carrieri. Memorabile la bellissima poesia “Povere Gocciole” dedicata a Franco Berardelli. I suoi scritti in lingua dialettale cantano l’animo della gente di Nicastro, la gioia di vivere e l’amore della gente di Nicastro, tutto della sua Nicastro, che lei chiama “sua seconda culla del cuore”. Teresa Augruso va ricordata come docente che anticipa i tempi: basta citare la Tavola Totodita per rendere più piacevole e facile l’apprendimento. Dei suoi espedienti didattici si trova larga traccia nell’Enciclopedia Fabbri ed in altre opere didascaliche. Lo studioso di storia locale Don Pietro Bonacci nei suoi libri sostiene che l’ultima vera poesia dialettale nicastrese è quella di Teresa Augruso, mentre Giuseppe Marzano l’annoverava già nel 1954 tra i maggiori scrittori calabresi. Credeva fermamente nei valori della famiglia, e nei principi religiosi, umani e nazionali: sentimenti che affiorano con calore e passione nei suoi studi sugli usi e costumi calabresi. Ricevette numerose lettere di compiacimento da parte del Provveditore agii Studi e della Direziona Generale delia Scuola elemen-tare; a proposito di quest’ultima ella scrive: «La scuola elementare è, nella nazione, un dolce assillo a cui nessun cittadino può sottrarsi e per cui “molti” dedicano, in caro affanno, tutta una vita, intera!» Purtroppo la morte la colse nel pieno della sua maturità umana ed artistica, in Nicastro il 21 Novembre del 1968 all’età di 71 anni. Delle sue poesie e dei suoi scritti (oltre cento lavori) in vernacolo e in lingua, si stanno preparando delle raccolte di prossima pubblicazione, nell’auspicio che l’unanime apprezzamento giunga per questa illustre nostra concittadina

Di “Adelaide Serra”

STORICITTA’ (Marzo 1994)

Madre Vincenzina Frijia

Vincenzina Frijia

Madre VINCENZINA FRIJIA

Eco dell’ Amore di Dio Nasce a Curinga il 13 Giugno 1915 da Vincenzo ed Eleonora Frijia.

Quarta dei cinque figli dei coniugi Frijia, Isabella , in religione Vincenzina , fin da giovanissima mostra segni di vocazione speciale verso il Bello e soprattutto verso il Signore Gesu’.

Ancora bambina viene mandata a Montesoro, fraz. di Filadelfia, dove, in casa dello zio Arciprete Vincenzo Frijia, inizia uno straordinario cammino di formazione alla santità. Con Lei c’è, oltre lo zio arciprete e la zia Isabella , sua cugina Maria Frijia, madre dello scrivente.

Due anime che avvertono in pienezza la chiamata ad essere “Eco dell’Amore di Dio”. L’una protesa verso la vita religiosa, l’altra, su consiglio successivo della prima, verso la vocazione familiare.

Bellissima oltreché gentile e di temperamento gioviale, Vincenzina conduce una vita serena e spensierata con spiccato amore per la musica ed il canto, tanto da essere chiamata dallo zio “il mio usignolo”.
Cresciuta negli anni, ricorderà sempre quei tempi e ne farà tesoro per mostrare a tutti che è possibile vivere la gioia cristiana come dono da offrire a chi è solo e sfiduciato.

Forte di questa gioia Isabella soccorre i poveri ed i bisognosi. Cosa che farà per tutta la vita , sia in Italia che all’ estero quando andrà in Brasile ed in Francia per visitare le prime Case della Congregazione alla quale poi apparterrà.

A 18 anni , quando indossa il saio francescano per entrare nell’Istituto delle Suore Francescane del Signore, a Caltanissetta, ha già alle spalle un intensa preparazione spirituale ed una volontà decisa di abbracciare la vita religiosa.

Lo aveva già dimostrato qualche anno prima. A Curinga in mezzo alle consorelle della Confraternita dell’Immacolata. A Montesoro e ancora a Curinga , dove ebbe la fortuna di incontrare la Fondatrice dell’ Ordine delle Francescane del Signore della città, Madre Immacolata La Paglia, in visita alla prima casa aperta in Calabria nel 1934, su espresso desiderio dell’allora Vescovo di Nicastro Mons. Eugenio Giambro. Decide senza indugio di entrare in Congregazione e una notte, come dirà lei stessa , le appare in sogno San Francesco D’assisi che, a conferma della sua vocazione , le sussurra:” entra , entra tra le suore Francescane del Signore”.

Il 24 Novembre del 1934 inizia il postulantato e il 29 Ottobre 1935 indossa l’abito. Nel ricordino farà stampare queste sue frasi:” Che Ti renderò o Signore , per la grazia si grande che mi concedi?” ed ancora :” Spogliata degli abiti del mondo e rivestita del prezioso saio di penitenza vivrò solo per Te!”. Dopo due anni di intensa formazione, il 2 Dicembre 1937 emette i voti solenni dinanzi al Vescovo Mons. Giovanni Jacono . Giorno 4 Ottobre del 1943, festa di San Francesco D’Assisi emette quelli perpetui.
Dal quel momento è tutto un incalzare di fervente apostolato a favore di quanti le chiedano “ragione della sua fede”. Verso i poveri, gli ammalati, verso le consorelle che educherà , da maestra delle novizie , in maniera del tutto straordinaria. Tutte le suore che la ricordano in veste educativa ne avvertono ancora un esaltante fascino di spiritualità. A partire dall’ attuale Superiora Generale della Congregazione , Madre Celestina Dinarello . E assieme a lei, Madre Giacinta Cammarata e Madre Arcangelina Guzzo. Suor Vincenzina vive in pienezza la chiamata alla Santità. Soccorre i militari feriti quale crocerossina durante il conflitto mondiale. Quando verrà il Capo dello Stato in Sicilia per visitare l’ospedale militare di Caltanissetta, Madre Vincenzina e pronta ed operosa nelle corsie dei malati.
Gioviale e discreta, entusiasta e mite, si mostra sempre disponibile nel servizio e nella missione propria di una religiosa di altro tenore morale ed umano.

Ci vorrebbero fiumi d’inchiostro per narrare quanto Suor Vincenzina, nella sua breve esistenza, ha realizzato in assoluta umiltà ed obbedienza al suo carisma. Certo è che Madre Vincenzina ebbe la stima e l’affetto di tutta la Congregazione che l’annoverò per più anni come segretaria generale e poi come vicaria generale. Fu l’intuizione dell’allora Superiora Generale Madre Annina Ragusa a sostenerne fortemente

l’elezione a terza Madre Generale . Erano gli anni del Concilio Vaticano II° e quella nomina veniva proprio a cementare un impegno a continuare in sintonia con le novità di una Chiesa che si rinnovava nelle linee pastorali e nella presenza nel mondo.

L’umile Suor Vincenzina fu all’ altezza della chiamata, superando ogni attesa ed ogni previsione. Da Madre Generale portò avanti il Carisma del Fondatore PADRE ANGELICO LIPANI , il cappuccino santo di Caltanissetta, con una chiarezza ed una lungimiranza che , ancora oggi a distanza di oltre trent’anni, sanno dell’ eroico . Ed eroica fu Madre Vincenzina. Nonostante le precarie condizioni di salute, pur giovane Suora, girò tutta la Congregazione. Dal Brasile alla Francia, preparando una strada oggi fiorente verso le Filippine e la Bolivia.

Il tutto in appena due anni e quattro mesi di generalato. Anni di instancabile attività missionaria e culturale. Per suo merito vengono ottenute le parifiche per le scuole gestite dalla congregazione e si aprono nuove case in Sicilia ed in Brasile. A Caltanissetta viene ottenuta la parifica dell’ Istituto magistrale esistente presso la Casa Madre (oggi Centro Studi). A Rio De Janeiro viene inaugurato l’Istituto Francisca Paula . Sempre in Brasile vengono aperti due orfanotrofi e due ospedali.
A Caltanissetta Madre Vincenzina realizza L’Aspirantato; inizia e porta quasi a termine una grande Casa di accoglienza, adibita oggi anche quale Centro per Ritiri Spirituali e Convegni.
Madre Vincenzina passa come una meteora. E’ luminosissima. Guizza veloce nel firmamento, guarda verso la terra e punta all’ Infinito. Poi riparte e sembra sparire.

Alle quattro del 21 Giugno 1966 viene colpita da un’embolia. Dopo un breve ed apparente tranquillo decorso del male il sette Luglio Suor Vincenzina vola in cielo tra gli Angeli ai quali, prima di morire, aveva promesso di offrire ogni sofferenza e tutta se stessa al Signore ed al Papa.

Una serie di circostanze e strane coincidenze mi legano a quell’ avvenimento. Avevamo telefonato a Caltanissetta perché l’allora Arcivescovo di Fermo, Mons. Norberto Perini desiderava la presenza delle Suore Francescane del Signore in una Clinica privata di recente costruzione. Appurammo , con sgomento, della malattia di Madre Vincenzina. Lei stessa però tramite una suora, ci rispose che avrebbe fatto di tutto per accontentare il Vescovo e il bravo medico proprietario della clinica. A telefonare era stata mia madre sua cugina ed inseparabile amica durante gli anni della fanciullezza. La stessa Madre Vincenzina, in più di un occasione e in alcune lettere, che conservo gelosamente, ricorda con particolare affetto quegli anni. Mia madre morì, dopo alcuni anni, con la stessa malattia di Madre Vincenzina e allo stesso orario.

Qualche giorno prima il ventitre Maggio 1966, Madre Vincenzina aveva incontrato personalmente Paolo VI°, in occasione del consueto Convegno Nazionale delle Superiori Generali. Quel gesto continuava a suggellare il suo incondizionato amore alla Chiesa.

Ai funerali ,celebrati in maniera solenne nella Cattedrale di Caltanissetta, c’era un immensa folla. Tutti i sacerdoti della diocesi assieme a tanti altri venuti dall’intera Sicilia e dalla Calabria. Alcuni Vescovi, autorità e popolo, tanto popolo. Centinaia i telegrammi di cordoglio. Quello del Papa e del Cardinale Ruffini ,Arcivescovo di Palermo e Protettore della Congregazione. In quei giorni, nel giardino e sulle terrazze della Casa Madre, fioriscono improvvisamente i crisantemi. Inconsueto per il mese di Luglio. E l’Istituto è inondato di un intenso profumo.

Con animo trepidante e riconoscente guardo anch’io alla figura cristallina di questa eccezionale religiosa. Ne colgo ancora i tratti buoni e gentili che mi infondono serenità e speranza. Ma soprattutto ne avverto il calore spirituale che mi fa dire, assieme a quanti l’hanno conosciuta e non, che le creature risuonano come” Eco dell’Amore di Dio”. In special modo quelle che, come Madre Vincenzina, Vivono totalmente in Lui. Madre Vincenzina Frijia veglia sull’ intera Congregazione delle Suore Francescane del Signore. In Italia, Brasile, Filippine, Bolivia, Francia, Tanzania. E il suo cuore è li dove c’è bisogno di conforto, di aiuto , di preghiera. Fedele Sposa di Cristo e calabrese autentica. Vanto di Curinga e Figlia illustre di questa nostra antica Diocesi.

Vito Cesareo

Sottotenente Vincenzo Calvieri

Vincenzo Calvieri

Scheda completa di: Vincenzo Calvieri Sunt lacrimae


La Chiesa, che ha esperienza bimillenaria delle tre realtà, fa pregare: «A peste, fame et bello (guerra) libera nos, Domine ». Il re Davide, a suo tempo, non seppe cosa scegliere perché l’un flagello valeva l’altro. In guerra si muore, e muoiono i giovani, i giovani più validi. La lunga lista dei caduti comincia il 21 ottobre 1915 con il sottotenente ed ex seminarista, Vincenzo Calvieri; era nato il 21 nov. 1892. Nello stesso giorno la morte colse il venticinquenne Villelli Tommaso. L’ultima, ad armistizio concluso, sempre per causa di guerra, il soldato (ventidue anni) Mazza Francesco: 9 giugno 1921, ospedale militare di Bologna.

Telegrammi stereotipati affluivano sul tavolo del Sindaco: « Compiacesi comunicare dovute forme cautele famiglia che gloriosamente cadeva sul campo battaglia. Colonnello ».

Non vi era bisogno che il Sindaco entrasse in casa: la tragedia cominciava. Primo atto veramente vissuto: gramaglie per la vedova, per i genitori, pianto dei figli nel pianto di una famiglia. Secondo atto (oggi la definiremmo «farsa»). Lo trascrivo dalle Esequie del sottotenente Vincenzo Calvieri: «II corteo mosse dal Palazzo di Città, aperto da tutte le scolaresche maschili e femminili del Comune, recanti una corona di fiori e guidati dai rispettivi insegnanti; appresso la musica cittadina e quindi la Bandiera del Municpio, portata da un soldato ferito nell’odierna battaglia, fra quattro Carabinieri al comando del proprio Maresciallo, ed accompagnata dal Sindaco, dalla Giunta e dal Consiglio Comunale, dal Comitato di Assistenza Civile, dalla Società Operaia e dalla Società Indipendenza e lavoro e dal popolo. Giunto alla casa dell’estinto, dove la famiglia tenne pronto un simulacro di bara, avvolta in un drappo, con sopra le insegne del defunto, che, presa e portata da quattro giovani amici, reggendo i cordoni il sig. Antonino Senese presidente del Comitato di Assistenza Civile, il sindaco sig. Basilio Perugini, il sig. Bonaventura Bevilacqua e il dott. Domenico Lorusso, fu accompagnata alla Chiesa del Duomo, dove era stato eretto un degno catafalco, sul quale il finto tumulo fu deposto. Celebrata la messa solenne, benedetto il tumulo che rimase in Chiesa fra i ceri e le corone, terminate le belle parole di occasione pronunciate dall’arc. Caruso, il corteo riordinatesi come prima, fece sosta in piazza del popolo, dove furono pronunciati i discorsi di occasione e andò a sciogliersi al palazzo di Città »

(Cfr. In memoria di V. Calvieri, pp. 11-12). Quella cassa vuota portata da casa alla chiesa e posta tra ceri.
Sottotenente Vincenzo Calvieri

CENNI BIOGRAFICI

Vincenzo Calvieri nacque in Curinga il 21 novembre 1892 da Sebastiano e da Eleonora Minniti. — Costoro, con indefesso lavoro e continue privazioni, potettero provvedere per tempo alla educazione di lui che, dotato d’intelligenza non comune, aveva intrapreso la carriera ecclesiastica, come quella che alla sua epoca era la pili economica e perciò la più corrispondente agli scarsi mezzi pecuniari di cui la famiglia poteva disporre.

Da giovinetto, circondato dallo affetto dei suoi, cercò subito di meritarselo sempre più, ed attese a compiere la propria educazione ed istruzione con ogni diligenza e con grande amore guadagnandosi la stima dei maestri e dei compagni. Dei compagni pure, giacché mai da parte di alcuno egli è stato mai oggetto d’invidia; tanta era la sua modestia, la sua lealtà, il suo affetto per tutti.
Percorrendo così i primi anni nei Seminavi di Nicastro, Monteleone, Catanzaro e Bova, in ogni fine di anno scolastico egli intuiva la necessità di rendere legali i titoli dello studio fatto; ed all’insaputa del Seminario, ed all’insaputa della sua famiglia, dopo ottenuta la promozione di classe nelle scuole ecclesiastiche frequentate, avvalendosi dei suoi risparmi peculiari fatti durante un anno, pel pagamento delle tasse scolastiche, concorreva anno per anno agli esami delle Regie Scuole ginnasiali e liceali, ottenendone sempre la promozione e conservando i certificati legali relativi.
Per tale sua previggenza, appena chiamato al servizio militare, si trovò al caso di ascriversi agli allievi ufficiali, e con la rigida disciplina dell’esercito, seppe trovar modo e tempo di continuare i suoi studi tino a conseguire la licenza liceale, ed ipso facto presentarsi al concorso di esami di Sottotenente, vi conseguì la nomina, riuscendo il 3°. fra lutti i concorrenti. — Ed il 14 Agosto 1915, proveniente da Torino, vestito della sua nuova divisa di Sottotenente di Fanteria, per arrivare la sua nuova destinazione al 19°. Reggimento Fant. di stanza a Cosenza, vi passava dalla sua famiglia, formando visi sei giorni soltanto, valsi alla consolazione dei suoi vecchi genitori che videro con sì bel successo coronata l’opera loro.

Né il grado, né l’Autorità di Ufficiale dell’esercito lo avevano minimamente adulato, e nulla avea perduto di quella modestia ch’era stata sempre sua, nella casa di poveri agricoltori da cui proveniva; sicché tutti i cittadini indistintamente lo ebbero in grande stima, ed ammirandone le qualità, tutti, in quei sei giorni che ha dimorato in famiglia, vollero portargli personalmente lo più affettuose congratulazioni. —Egli sentivasi arrivato all’apoteosi dei suoi sogni, esternava con orgoglio i suoi sentimenti per la patria, anelava il momento di far parte, con la sua nuova divisa, tra le fila dei combattenti. — II 22 di Agosto si presentò al comando del suo Reggimento, raccomandandosi e piatendo di essere mandato dove tanti altri giovani suoi pari esponevano la propria vita per la grandezza della Patria.

Otto giorni ancora e l’ottenne!

Il 29 di Agosto, ritornò per 24 ore in famiglia a prendere commiato da tutti, ed il successivo giorno 30 partì per raggiungere il 141°. Regg. Fant. al quale fu destinato e che trovavasi in battaglia.
Dalla Zona di guerra egli scrisse la sua entrata il 16′ settembre, in trincea.
Non dovea più ritornare! Non è più ritornato! Le sue lettere, donde appariva la sua vocazione di rendersi utile alla grandezza della Patria; donde appariva tutto il suo eroismo contro il nemico d’Italia; donde appariva che tutto per lui era passato in seconda linea, affetti di famiglia, di parenti, di amici….. la sua giovinezza, la sua vita, il suo avvenire….. di fronte all’amor della gloria italiana…; le sue lettere impensierirono tutti, e tutti, trepidanti, attendevano ad ogni istante notizie di assicurazione sulla sorte di lui! E quelle sue lettere cessarono con la data del 20 Ottobre! Il 13 di quel mese scriveva ad un suo amico e parente Sig. Bruno Garofalo, queste righe fra le altre: « Intorno alla guerra, mio caro, cosa vuoi che ti dica, « le solite chiacchiere di giornali, i quali dicono tanto» di quelle cose che non sono mai avvenute.—Sul nostro « fronte, scontri ne avvengono tutti i giorni; ma sono « scontri parziali di poca importanza che finiscono « con la vittoria completa dei nostri, con poche perdite, dato il valore dei nostri bravi soldati, i quali « nel nostro Reggimento sono tutti calabresi. — E per « mia convinzione e constatazione dei fatti, posso assicurarti che valorosi come i nostri calabresi non ve ne sono.—Presto avremo il cambio ed anche si apriranno le licenze, quindi spero di riabbracciarti.— Certo tu sarai più trepidante di me per la mia stessa vita, poiché io che sono in continuo pericolo, neppure ci penso alla morte, assorto nel supremo pensiero di vincere e di condurre sul campo della gloria i miei « soldati. »

Ed il 18 dello stesso Ottobre scrisse ai suoi genitori ed al Garofalo:

Ai primi diceva : Sto bene, e mi auguro che anche voi tutti stiate bene. Mai come in questo momento sento il bisogno « di una paterna e materna benedizione che io con la presente chiedo. — Con 1′ augurio che questa benedizione mi giunga opportuna, tralascio di scrivere chiedendo la medesima ed abbracciando con affetto tutti, ecc.

Al Garofalo diceva : « Sto benissimo fino al momento, ma verso una « fase di gloria che spero di poterne usufruire col maggiore vantaggio possibile. — Credo che mi comprendi quel che voglio dire, e se ritardo a scrivere significa sto molto bene ed al sicuro e quindi cerca di non dimenticarti di un amico che ti ha sempre voluto bene. — Non posso dirti altro. — « Tralascio con l’augurio di poterti inviare altra mia..ecc. »

Ed allo stesso Garofalo l’indomani 19 ottobre scriveva altra cartolina: Carissimo, mentre il cannone tuona, io attendo il momento di lanciarmi all’assalto, alla vittoria — Viva l’Italia— Avanti—Saluti—V.»
La successiva mattina, 20 ottobre, ultimo giorno in cui scrisse, vergò a matita queste laconiche notizie, ai genitori ed al Garofalo: agli uni « 20-10-15 —Sto bene, chiedo S. benedizione — Vostro Vincenzo»; all’altro, « 20-10-15 Ancora sto benissimo— Saluti V.»

Furono le ultime!! Fu poscia il Comandante del 141 Regg. che in sua vece, più tardi, il 4 di novembre, telegrafò al Sindaco di Curinga:

« Compiacciasi comunicare dovute forme cautele « famiglia Sottotenente Calvieri Vincenzo che gloriosamente cadeva sul campo battaglia.

COLONNELLO THERMES

Egli cadde sul campo di gloria, colpito alla testa e al petto, il 21 Ottobre, durante uno dei più impetuosi assalti dati dalle nostre fanterie al Monte S. Michele.

Maestro Vincenzo Sestito

Vincenzo Sestito

Scheda completa di: VINCENZO SESTITO


Sono stato anch’io discepolo del maestro Vincenzo Sestito, sebbene abbia fruito dei suoi insegnamenti soltanto nell’ultimo anno della sua lunghissima carriera di docente, quando frequentavo la seconda classe elementare. Proprio quell’anno, alla veneranda età di settantatrè primavere – era nato a Curinga da Emanuele e Palma Votta il 5 luglio 1877 – lasciava l’insegamento colui che per oltre mezzo secolo era stato l’educatore per antonomasia, il simbolo di una scuola illuminante il cui spirito veniva interpretato con la coscienza che l’educazione e le conoscenze impartite nel corso della scuola elementare, per gli alunni, sarebbero rimaste, non considerando quelle naturali della famiglia e dell’ambiente, le uniche per tutta la vita Il suo nome era una garanzia ed un biglietto di visita di sicuro affidamento per chiunque avesse avuto bisogno di dar prova di una preparazione indiscutibile: “Ho conseguito la licenza elementare sotto la guida del maestro Sestito”, oppure, “Ho frequentato la ‘Sesta’ diretta dal maestro Vincenzino Sestito” potevano essere le frasi guida su cui poteva scivolare più fluido il colloquio d’esami per l’accesso ad un impiego o ad una carica di responsabilità che richiedessero cultura generale vasta e competenze specifiche sicure.

Un mito per generazioni e generazioni di allievi!

Era il 1950 quando cedeva il testimone del suo magistero educativo certamente ad uno dei più degni allievi ed erede spirituale, il prof. Vincenzo Sgromo, che ne ha continuato l’opera con lo stesso zelo, la stessa abnegazione e lo stesso impegno nel trasmettere agli alunni tutti quegli insegnamenti che sarebbero stati capaci di recepire con l’intento di dotare le loro menti e i loro cuori d’inesauribili risorse capaci di assicurar loro successo in qualsivoglia campo operativo si fossero cimentati.
Ogni qualvolta la mia mente rivisita quel periodo, mi balza sempre davanti agli occhi della memoria quella sua figura ascetica che puntualmente ogni mattina appariva gradatamente da dietro il muricciolo che costeggia via Serra di Ciancio e si stagliava per breve tempo nel sole, affiorante alle spalle da dietro i tetti, i cui raggi ne disegnavano per un attimo i contorni del busto con un merletto di luce, prima che egli entrasse nella fascia d’ombra proiettata dal vetusto palazzo Panzarella, posto nell’angolo di confluenza di detta strada con via Notarcola. Allora la sua figura risultava più percepibile per il contrasto tra il nero del cappello e della giacca ed il bianco della camicia, con l’immancabile colletto di seta lucida e inamidata, cui si aggiungevano i candidissimi baffi che accendevano il rosa delle sue guance ineccepibilmente rasate. La maestosità del suo portamento e l’eleganza del suo incedere erano espressione di equilibrio interiore che penetrava chiunque entrava in rapporto con lui.

Si avvertiva intanto il rumore sommesso dei suoi passi misurati e lenti, ma sicuri, sul selciato perché all’esclamazione “il maestro!” del compagno che per primo intravedeva gli inconfondibili tratti di quella ieratica andatura, tutti ci premuravamo di assumere compostezza e silenziosa posizione di attesa rotta dal corale “buongiorno, signor maestro!” cui seguiva il frenetico assieparci all’entrata.
E come la porta si schiudeva venivamo investiti da un’onda intensa di profumo di matita che si sprigionava dall’aula come se le pareti, dopo averlo assorbito per tutto il giorno, durante la notte lo avessero riciclato per lanciarcelo addosso con la delicata violenza di una manciata di petali olezzanti. Quell’odore pungente di scuola ci penetrava l’anima e sollecitava in noi, non senza una stretta al cuore, fiduciosa euforia, sicurezza, speranza infinita nell’avvenire.

Il tono pacato e suadente della sua voce accompagnava la giornata scolastica costantemente illuminata dai suoi interventi esplicativi precisi, trasmessi con parole semplici, ma scandite sempre con una chiarezza unica, intrisa di carezzevole, vellutata sonorità, ed enunciate con una maestosità sacerdotale che conferiva prestigiosa autorevolezza ad ogni insegnamento ed un senso di diffusa austerità a quell’ineffabile atmosfera di laboriosa, serena collaborazione. Nello stesso tempo, c’infondeva nell’animo gioia d’apprendere, passione per lo studio, inebriante desiderio di luce, voglia irrefrenabile di sublimare la dimensione della nostra vita attraverso il sapere. Quel vibrato accento che caratterizzava il suo dire evocava in noi misteriose risonanze che si fondevano all’impercettibile fruscìo di tènere fantasie veleggianti verso arcani mondi, eccitavano suggestive sensazioni di magiche promesse…

Si operava circonfusi da un alone di paterna presenza, stimolante e protettiva, consacrato dalla grande venerazione nostra per lui. Venerazione che trovava riscontro nelle famiglie poiché, nella maggior parte dei casi, egli era stato l’educatore dei fratelli più grandi o dei padri stessi per cui a casa si veniva iniziati al culto del maestro.

“Severo”, “rigoroso” sono le valutazioni ricorrenti che mi colpiscono quando sento parlare di lui, anche se accompagnate puntualmente, ora a note chiare ora velate, da espressioni di profonda ammirazione, di immensa gratitudine e di commovente devozione. Eppure io di lui conservo nitida la memoria di una figura deamicisiana di maestro.

Tra i ricordi indelebili rimane la rituale, mattutina integrazione dell’inchiostro nei calamai fissati allo scrittoio: era l’unico insegnante a sollevare gli scolari dall’incomodo peso di portare da casa la caratteristica boccettina contenente il nero liquido in cui intingere la penna, che puntualmente, nei casi più fortunati, ci macchiava soltanto le mani.

Se qualche alunno si assentava a lungo perché ammalato, si recava a fargli visita ed esortava anche noi a fare altrettanto. Procurava egli stesso, forse attraverso l’ente comunale per l’assistenza, flaconi di vitamine che faceva sorbire personalmente ad alcuni compagni che, specialmente nei periodi di convalescenza o di particolare debilitazione, avevano bisogno di qualche ricostituente.
E che dire dell’accoglienza che riservava, in tempi molto più tristi, come mi ha più volte raccontato l’amico Giulio Perugino, suo genero, ai ragazzi che arrivavano da Montesoro dopo aver guadato il torrente Turrino ed essersi inerpicati per l’erta mulattiera che da Pomillo sfocia in via Roma, proprio dietro l’abside della chiesa Matrice. Nelle giornate particolarmente rigide e piovose dell’inverno li attendeva sull’uscio e li ospitava in casa, intirizziti e spesso fradici di pioggia, perché si ristorassero al tepore del camino, senza tralasciare di offrir loro qualche tazza di latte caldo e qualche biscotto.
Eccelleva, il maestro Sestito, in un’altra attività che svolgeva nel tempo libero con valentia perchè le opere che ha lasciato sono di eccezionale pregio artistico, non solo storico e sociale. Intendo del suo interesse per la fotografia cui si dedicava con passione e straordinaria competenza tanto da organizzare in una stanza della sua abitazione un attrezzatissimo laboratorio per lo sviluppo e la stampa delle istantanee. Numerose sono le foto che ci sono pervenute e la loro qualità ci autorizza a definirle dei veri e propri capolavori per tecnica di esecuzione, nitidezza d’immagine, soggetto di ripresa. Rappresentano, inoltre, rare e significative tessere di lettura della vita sociale, culturale ed economica del tempo, vale a dire, della storia del nostro paese, documenti preziosi e indispensabili per il recupero della memoria del nostro passato.

Coadiuvava il dott. Sebastiano Serrao, ufficiale sanitario del Comune, soprattutto durante la campagna di distribuzione dell’antimalarico Gullo, preparato dal farmacista curinghese dott. Sebastiano S. T. Gullo, nel periodo in cui l’anofele imperversava nella piana di Santa Eufemia Lamezia: alcune fotografie di straordinaria eloquenza si riferiscono a questo servizio sociale reso, con encomiabile spirito missionario, in favore delle nostre popolazioni.

Si distingueva ancora per la facondia e le capacità oratorie e il suo dire assumeva toni solenni e commoventi allorquando si celebravano eventi patriottici o si esaltavano le meritorie opere di qualche persona defunta, i relativi pregi, le sue virtù. Tesseva gli elogi funebri con parole ispirate e toccanti che suscitavano emozioni profonde e consolatrici.

Fu indefesso promotore di iniziative di grande interesse culturale e sociale. Diede il suo autorevole e qualificato contributo alle rappresentazioni teatrali della Compagnia Filodrammatica della nostra cittadina di cui, forse, fu anche uno dei fondatori. Organizzava gli spettacoli, guidava gli attori, suggeriva le battute, svolgeva, più semplicemente, la funzione del regista.
Subito dopo la Grande Guerra, guidò il Comitato che si costituì con lo specifico intento di far erigere il monumento ai figli di Curinga caduti per la Patria, monumento innalzato nella villa comunale ed inaugurato nel 1924

In quello stesso periodo, si occupò di bachicoltura e fece importare semi di ottima qualità propagandando fra la gente sistemi più razionali di allevamento che richiedevano la costruzione di appositi graticci e l’uso di carta da parati. Le innovazioni caldeggiate non riscontrarono il favore degli allevatori per i costi elevati, soprattutto se si considera che la produzione della seta era limitata all’uso familiare e solo per assicurare alcuni pregiati capi di corredo alle ragazze prossime alle nozze.
Dopo il suo ritiro dall’insegnamento, suggellato dal conferimento della medaglia d’argento da parte del Ministero della Pubblica Istruzione, ha continuato ad impegnarsi ancora in campo sociale, ma, gradualmente, com’è nell’ordine naturale dell’esistenza umana, le sue apparizioni ufficiali vanno rarefacendosi. Col passare degli anni le sue sortite si riducono alle quotidiane passeggiate costellate di innumerevoli, brevi soste per rispondere, alla sua maniera, ai saluti riverenti di quasi tutti i Curinghesi: si informava della loro salute e di quella dei familiari, del loro lavoro, della carriera scolastica dei figli o della loro attività… rievocando qualche particolare relativo alla vita scolastica di ciascuno o qualche significativo aneddoto, a conferma della sua brillante lucidità mentale, della sua formidabile memoria.

Ma, all’improvviso, inesorabilmente gli eventi precipitano:un mese dopo aver festeggiato l’ottantasettesimo compleanno, colpito da ictus cerebrale, si spegne in casa della figlia Maria, a Catanzaro.
È il 6 agosto 1964.

La salma viene traslata a Curinga dove, nella più austera semplicità si svolgono i funerali.
La cittadinanza tutta accompagna all’ultima dimora il Maestro: è un’oceanica, matura scolaresca che si snoda dietro la bara in silenzio, un silenzio religioso imperlato a tratti di sincere, commosse lacrime: con lui se ne stava andando un lembo di cuore di ciascun curinghese.
Martino Granata.