Dal 1806 alla battaglia delle Grazie (1848)
Fuggiti il Re e la Corte in Sicilia, i Francesi (1805) non tardarono a scendere nell’Italia Meridionale. Nel 1806 già si erano insediati pacificamente nella Calabria. Nel luglio di quell’anno, cambiamento improvviso di scena: un’armata Inglese getta all’improvviso le ancore nel nostro mare tra le foci del fiume Amato e dell’Angitola. Maida divenne il Quartiere Generale dei Francesi. Il generale Regnier aveva la sicurezza di sconfiggere gli Inglesi, ed invece fu battuto. Gli storici dicono che le popolazioni affacciatesi sulla Pianavidero la battaglia e ne seguirono le sorti osservando dai rispettivi paesi. Non abbiamo notizia documentata di un diverso comportamento dei Curinghesi, tanto più che lo scontro avvenne nella Marina di Maida.Tutti gli altri tentativi insurrezionali fino al 1848, lasciarono Curinga molto calma nel senso che non prese le armi. Gli animi, tuttavia, avevano già scelto la libertà e la democrazia e plaudivano alle Costituzioni elargite e ai regnanti sinceramente disposti a darle. Plaudì a Ferdinando secondo. Insorse, con altre popolazioni, contro Ferdinando 2° fedifrago.Re Ferdinando non stette con le mani in mano. Sul trono voleva restarci. Per togliergli le castagne dal fuoco diede incarico al generale Nunziante e al generale Busacca. Il primo sbarcò a Pizzo con 2.000 soldati borbonici. Il secondo a Sapri.
A Nicastro, Francesco Stocco, comandante della Guardia Nazionale di tutto il distretto, quindi anche di Curinga, saputo dello sbarco a Pizzo, servendosi dei capitani dei vari municipi, mobilitò in un giorno circa quattro mila uomini, pieni di entusiasmo ma disorganizzati. Il campo della Guardia Nazionale venne costituito a Filadelfia dove nessuno sapeva cosa fare. Neanche Nunziante, del resto, sapeva che pesci prendere in attesa che da Napoli gli arrivassero i rinforzi. Lo scosse l’au-dacia di alcuni giovani, tra cui Paolo Vacatello, da Pizzo Marina — papa della mia benefattrice donna Francesca, sposata dott. Catalano Antonio — che nella rada di S. Venere (oggi Vibo Marina) assalirono un veliero per impadronirsi dì 25 barili di polvere e di inutilizzare il restante del carico destinato alle truppe borboniche.
I Nazionali intercettano il piano del Nunziante e lo affrontano all’Angitola. E’ forte ormai di 5.000 uomini con batteria da campo. Gli uomini di Stocco sono appena 300 ed avevano il compito di frenare l’avanzata mentre Griffe da Filadelfia doveva affrettarsi di bloccare la strada consolare tra l’Angitola e Maida. Si combattè all’arma bianca. Il Nunziante però impiegò ben 16 ore per arrivare — lui personalmente camuffato da soldato — al ponte delle Grazie in Curinga. Le cose per i Nazionali potevano andare meglio se il generale Griffe, comandante del campo dì Filadelfia non avesse giocato di coda. Le cose andarono così: il 27 giugno, di buon mattino, Francescantonio Bevilacqua spedì al Griffo un messaggio per avvertirlo delle mosse dei Regi. Griffo lo tenne in poca considerazione. Stocco accentra nelle sue mani il comando, Ordinò, infatti, che tutte le compagnie ripiegassero sopra Curinga per appostarsi nei boschi prima dell’arrivo della colonna dei borboni. Griffo temporeggia con la scusa che la Cassa non poteva essere trasportata seguendo le piste scoscese della montagna. Non lo scossero dal suo atteggiamento neanche le informazioni di alcune donne curinghesi su combattimenti vittoriosi. Restò sordo anche alle sollecitazioni dei giovani più validi. Costoro, mal sopportando la freddezza del Griffo, lo abbandonarono e quasi di corsa raggiunsero gli altri combattenti nel bosco di querce della Madonna delle Grazie. La colonna del Nunziante forte di 4.000 uomini era seguita e protetta anche dal mare. La colonna man mano che raggiungeva i « casini » dei signori li saccheggiava e li incendiava. Incendiò e saccheggiò anche il casino di Francescantonio Bevilacqua il quale, irritato e furibondo, ed anche perché, come sopra ho cennato, sosteneva i Nazionali, con i suoi dipendenti e con alcuni suoi fidi di Curinga si appostò a ridosso della via, nascondendosi dietro le querce in attesa che passassero i Regi. Il gen. Nunziante ostentava sicurezza: fece sostare la truppa tra il Turrino e il casino Bevilacqua per circa due ore e le bande militari suonavano. I nazionali, invece, con fischi, schiamazzi, lazzi e fazzoletti sfidavano gli avversar!. La sfida venne raccolta. Si accese la battaglia e durò oltre tre ore. La truppa del Nunziante che precedeva a file serrate ebbe rilevanti perdite. Non giovò loro neanche l’intervento dei Carabinieri (detti così per l’arma della carabina di cui erano dotati) e dei Cacciatori. Incalzati dai Nazionali furono costretti a ritirarsi e a disperdersi in direzione del mare.
Un vecchio militare dei Nazionali, conoscitore dei segnali del campo avverso suonò la ritirata. Ingannati da quel suono i Regi si diedero frettolosamente alla fuga. I veri sbandati erano 577 e cercavano la salvezza via mare col vapore Archimede. Nunziante, in questa occasione, non fu
all’altezza della sua reputazione: non usò i cannoni all’avamposto dell’Angitola, fu affiancato da comandanti non del tutto capaci e di qualcuno infido, non valutò sufficientemente la forza degli ideali per i quali si battevano gli avversari. Ingannato, infine, dalla topografia della zona, e anzitutto dalla strada che in quel luogo segna grande curva a gomito e cieca, non fu in grado di valutare subito l’entità dello sbandamento. Lo giudicò amplissimo, mentre erano fuggiti soltanto poche centinaia di uomini. Lui stesso sbandato tra gli sbandati, fu trovato in una cunetta che gli permise di restare inosservato ai Nazionali. I Nazionali da parte loro, a giudizio di esperti, non seppero sfruttare convenientemente gli sbagli e le incertezze dei Regi, per cui quella battaglia che poteva essere risolutiva a tutto vantaggio dei Nazionali, diede respiro ai Regi di riorganizzarsi, di ricevere rinforzi navali e di truppe di terra, di trattare con i Nazionali sì che così potettero ricongiungersi con le truppe rimaste nella provincia di Cosenza al comando del generale Busacca. « Se il 27 giugno — fu scritto in quei giorni — ci avesse trovati insieme, non sarebbe rimasto un solo dei soldati di Nunziante ». E del popolo di Curinga: « Bello e sorprendente era il popolo di Curinga. Emigrava intero per la montagna portando tutti gli oggetti delle case. Le donne ci annunziavano che i Nazionali aveano vinto, che fossimo corsi, e che ci fossimo battuti che Maria SS.ma ci avrebbe salvati. Questo grido era in bocca di tutti e noi veramente con quelle parole diventammo superiori a noi stessi ». « Nel bosco della Grazia avvenne il combattimento più impegnato, ma terminato il combattimento le masse, per mancanza di comando non sapeano ove dirigersi ».
Un giudizio abbastanza duro scrive Tommaso Cianflone da Sambiase (da Murai a Stocco, 1898) sull’impetuosità di Francescantonio Bevilacqua: «Se il Bevilacqua avesse avuto la prudenza di non perseguitare gli sbandati, avanzandosi e perciò abbandonando il posto, avrebbe fin da allora salvato la libertà agli Italiani, poiché il resto delle truppe borboniche si sarebbe pure sbandato, senza poter più oltre proseguire» (p. 24).
La battaglia costò molto sangue. Il tributo maggiore lo pagarono i Regi perché proseguivano a file serrate. I Nazionali sono ricordati nella stele marmorea eretta ad iniziativa della Calabria Media e dalla Provincia nel 1873 sulla sponda del torrente la Grazia:«Alla memoria, dei benemeriti e prodi cittadini ANGELO MORELLI FEDERIGO BARONE DE NOBILI
GIUSEPPE MAZZEI ANDREA DESUMMA GIUSEPPE DE FAZIO GIOV. BATTISTA ALESSIO ANTONIO SCARAMOZZINO FERDINANDO (MUSCIMARRO FELICE SALTALAMACCHIA che in questo luogo il dì 27 giugno 1848′ valorosamente combattendo ed immolando all’amore di Patria gli affetti di famiglia le giovani di speranze furono barbaramente uccisi dai militi del fedigrafo Re Ferdinando II questa modesta Pietra pone la Media Calabria riconoscente 1873.